Infezione virale e prova della derivazione lavorativa (Cass. civ., sez. VI-L, 10 ottobre 2022, n. 29435).

Infezione virale: l’origine lavorativa può provarsi mediante presunzioni semplici.

In materia di infortuni sul lavoro, l’infezione virale in rapporto allo svolgimento dell’attività lavorativa a rischio può essere dimostrata anche mediante presunzioni semplici, senza che venga richiesta l’individuazione di uno specifico episodio o contatto infettante.

Nella interessante decisione qui a commento la Suprema Corte indica l’assetto probatorio di cui è onerato il lavoratore, nello specifico un Infermiere, in caso venga lamentata una infezione virale di origine lavorativa.

Il ricorrente, infermiere presso una RSA, promuoveva giudizio di merito onde vedersi riconosciuto l’indennizzo INAIL per avere contratto una infezione virale (Epatite di tipo C) sul luogo di lavoro.

I Giudici di merito, in primo e secondo grado, rigettavano la domanda in quanto non vi era certezza sulla individuazione dell’origine della contrazione del virus e il lavoratore non allegava alcuna specifica circostanza lavorativa che avrebbe potuto causare la suddetta infezione virale, anche in ragione della possibile origine multifattoriale.

Nello specifico, la Corte d’Appello di Palermo, che confermava la decisione del Tribunale di Agrigento, prendendo le mosse dalla possibile origine plurifattoriale della malattia, riteneva che la prova della causa di lavoro o della speciale nocività dell’ambiente di lavoro gravasse sul lavoratore, aggiungendo che la valutazione da compiere non riguardava “il nesso causale dipendente dagli effetti patologici dell’infortunio professionale che si sia sicuramente verificato, vertendo la questione sulla certa individuazione del fatto all’origine della malattia”.

L’Infermiere ricorre in Cassazione deducendo errata applicazione dell’art. 2700 c.c., L. 210 del 1992 art. 4,D.P.R. n. 1124 del 1965 art. 3 e che, in presenza di malattia tabellata, pur multifattoriale, la prova certa del fatto origine della malattia come avvenuto in occasione di lavoro non è richiesta. Con il secondo censura la sentenza impugnata per non avere valorizzato, al fine almeno di dare corso a C.T.U. sul nesso causale, quanto emergeva dalla perizia svolta in altra causa e dal verbale della Commissione, rimarcando l’errore commesso nell’avere ritenuto che la pregressa contrazione di epatite B potesse avere una qualche incidenza sul decidere, visto che essa derivava da un diverso virus.

Con un terzo motivo, infine, deduce che il giudizio di ragionevole probabilità può essere sviluppato anche in base alla compatibilità della malattia quale desunta dalla tipologia delle mansioni svolte, dalla durata e dal tempo della prestazione lavorativa e per l’assenza di altri fattori extra-professionali, potendo a tale scopo utilizzare congiuntamente anche dati epidemiologici.

Le censure sono fondate.

“nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, costituisce causa violenta anche l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinino l’alterazione dell’equilibrio anatomo – fisiologico, sempreché tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell’infezione” con l’aggiunta che “la relativa dimostrazione può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici” (C. 7306/2000, poi anche C. 20941/2004; C. 6899/2004).

La Corte d’Appello, con una motivazione non sempre coerente e lineare, in cui è menzione della necessità di una “certa individuazione del fatto origine della malattia”, colloca il punto di caduta ultimo del proprio ragionamento nella conclusione per cui si sarebbe infine dovuta dare, anche alla luce della pregressa Epatite B, “la prova rigorosa dell’infezione virale infettante in occasione di lavoro”. La conclusione è errata.

La predetta regola di giudizio e di prova adottata contrasta con quanto ritenuto dal citato orientamento giurisprudenziale.  

Per tali ragioni la Suprema Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Palermo in diversa composizione.

Avv. Emanuela Foligno

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