Ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale da malattia professionale del lavoratore, non osta il mancato positivo accertamento dell’autore del danno se tale responsabilità debba ritenersi sussistete in base ad una presunzione di legge (come l’art. 2054 c.c.) e se, ricorrendo, la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato
I ricorrenti agirono in giudizio per ottenere la condanna della società convenuta al risarcimento dei danni derivati dalla morte del loro congiunto (rispettivamente marito e padre), sia iure proprio che iure hereditatis. Con intervento volontario si costituì l’INAIL, esercitando azione di regresso nei confronti della società convenuta per le somme erogate prima al defunto e poi alle sue eredi, in conseguenza della malattia professionale del lavoratore.
Il giudice di primo grado accertò l’esistenza del nesso causale tra l’attività lavorativa prestata dall’uomo (con esposizione dal 1957 al 1987 alle polveri di amianto senza adozione di idonee misure protettive, né di prevenzione, né adeguata informazione sui rischi specifici della lavorazione) e la patologia contratta (manifestatasi con difficoltà respiratore nel maggio 2005 e diagnosticata come adenocarcinoma e poi mesotelioma pleurico epitelimorfo, esitata nel decesso del marzo del 2006). Condannò, quindi, la datrice di lavoro al pagamento, a titolo risarcitorio, delle seguenti somme: in favore delle congiunte 9.852,40 euro iure hereditaris; in favore della moglie 223.760,35 euro e della figlia 180.000,00 euro, iure proprio; ed infine, 116.706,22 euro a titolo di regresso, in favore dell’INAIL.
La Corte di Appello di Torino riformò parzialmente la sentenza, liquidando alle due eredi dell’uomo defunto la maggior somma di 33.195,00 euro, escludendo la condanna della società al pagamento della rivalutazione monetaria sulle somme già liquidate dal primo giudice e su quella dovuta all’INAIL.
In ordine poi, alla liquidazione del danno iure hereditatis subito dalla moglie e dalla figlia del lavoratore deceduto, la Corte torinese condivise con il Tribunale l’idoneità della quantificazione secondo il criterio “tabellare milanese”, in ragione della specificità di un danno non patrimoniale procurato da malattia culminata nella morte, esigente una più appropriata personalizzazione, che individuò nel riferimento alla misura massima erogabile dello Stato a titolo di indennizzo per la cd. “ingiusta detenzione”, pari a 235,82 euro al giorno; somma, poi, quadruplicata, in via equitativa, tenuto conto della irreversibile privazione del “bene vita” e, successivamente, ancora moltiplicata dalla Corte per la durata di undici mesi dalla malattia fino al decesso.
Sulla vicenda si è, infine, pronunciata la Corte di Cassazione (Sezione Lavoro, sentenza n. 12041/2020) che ha affermato il seguente principio di diritto: “in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la disciplina prevista dagli artt. 10 e 11 del D.P.R. n. 1124/1965 deve essere interpretata nel senso che l’accertamento incidentale in sede civile del fatto che costituisce reato, sia nel caso di azione proposto dal lavoratore per la condanna del datore di lavoro al risarcimento del cd. danno differenziale, sia nel caso dell’azione di regresso proposta dall’INAIL, deve essere condotto secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale, anche in ordine all’elemento soggettivo della colpa ed al nesso causale tra fatto ed evento dannoso”.
Infatti, una volta accertata e riconosciuta “l’autonomia e la separazione dei giudizi civile e penale” ne deriva che il primo sia disciplinato dalle regole sue proprie, che largamente si differenziano da quelle del processo penale, non soltanto sotto il profilo probatorio, ma anche, in via d’esempio, con riguardo alla ricostruzione del nesso di causalità, che risponde, nel processo penale, al canone della ragionevole certezza e, in quello civile, alla regola del più probabile che non (Cass. Sezioni Unite, n. 13661/2019).
Più volte la giurisprudenza ha affermato che “ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. e 185 c.p., non osta il mancato positivo accertamento dell’autore del danno se essa debba ritenersi sussistete in base ad una presunzione di legge (come l’art. 2054 c.c.) e se, ricorrendo, la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato”, per cui “una volta affermata l’autonomia tra il giudizio civile e quello penale, il Giudice civile deve accertare la fattispecie costitutiva della responsabilità aquiliana, posta al suo esame, con i mezzi suoi propri e, quindi, con i mezzi di prova offerti al Giudice dal rito civile per la sua decisione. Tra questi mezzi non solo vi è la presunzione, legale e non, ma addirittura vi sono le c.d. “prove legali”, in cui la legge deroga al principio del libero convincimento del Giudice”.
Del resto pretendere che l’accertamento sia effettuato con strumenti penalistici quando il fatto costituisce reato significherebbe aggravare la posizione del lavoratore infortunato.
La redazione giuridica
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