Segue dalla prima parte
Il DVR è un Sistema di Valutazione del Rischio per prendere misure di prevenzione ex ante che è riferito ad un gruppo della popolazione lavorativa per adottare misure di igiene del lavoro e che non può essere trasferito sic et simpliciter allo studio del nesso di causalità della malattia professionale
La circolare n. 70 del 2001 del Direttore Generale dell’INAIL, che se fosse stata letta e compresa da tutti gli operatori dell’INAIL avrebbe evitato una miriade di inutile contenzioso, sul tema, taglia la testa al toro, dove recita: “Al riguardo è opportuno, innanzitutto, richiamare alcuni principi che appartengono al patrimonio storico di conoscenze in materia e trovano continuo e puntuale riscontro nella prevalente giurisprudenza di legittimità e di merito. La nozione assicurativa di malattia professionale, tabellata e non, si caratterizza per l’esistenza di una causa lavorativa adeguata a produrre l’evento, ma non esclude la concorrenza di uno o più fattori concausali extraprofessionali, i quali possono anzi rappresentare, in determinate condizioni, fattori di potenziamento del rischio lavorativo e aumentarne l’efficacia lesiva.
Il giudizio sulla natura professionale della malattia, tabellata e non, è funzione, quindi, squisitamente medico-legale e, come tale, implica l’apprezzamento delle caratteristiche individuali, peculiari e non standardizzabili, della persona.
Ciò significa, tra l’altro, che valori limite e/o indicatori statistici di rischio hanno per il medico un valore orientativo ma non possono assurgere a elemento dirimente per il giudizio, stante l’esigenza di considerare la risposta individuale del soggetto alla causa nociva, diversa essendo la capacità di resistenza di ciascun organismo.
Il sistema di tutela prevenzionale e quello di tutela assicurativo-previdenziale delle tecnopatie, pur avendo ovviamente punti di convergenza, restano concettualmente distinti ed autonomi, diverse essendo la ratio e le finalità.
Ciò significa, tra l’altro, che i criteri normativamente enunciati a scopi prevenzionali hanno valore vincolante per le aziende che sono tenute ad uniformarsi, ma non possono condizionare la valutazione medico-legale sul danno alla salute che il singolo lavoratore può subire nonostante l’adozione delle prescritte misure prevenzionali.
Nell’ambito del sistema tabellare la presunzione legale d’origine è superabile soltanto con “la prova contraria” che deve essere rigorosa e sempre riferita al caso concreto e che, dunque, può scaturire soltanto dall’accertamento medico-legale.
Dall’insieme di questi principi, che costituiscono il quadro di riferimento dell’attività istituzionale in materia, discendono due corollari: la centralità della figura professionale del medico nello specifico settore e la conseguente necessità che lo stesso medico assuma le funzioni di governo e la responsabilità dell’intero procedimento che porta alla qualificazione della patologia; la peculiarità del giudizio medico – legale, che considera tutte le variabili in gioco (dati anamnestici comprensivi della storia lavorativa completa, dati clinici e strumentali, caratteristiche ed evoluzione della patologia, entità del danno, risultanze più recenti della medicina del lavoro e della epidemiologia, informazioni sulle condizioni di salute dei compagni di lavoro o di altri lavoratori similari, ecc.) e che, solo all’interno di questo complessivo contesto, valuta l’idoneità lesiva del rischio lavorativo“.
Noi ci auguriamo non che l’Istituto INAIL dia nuove disposizioni, che già quindi esistono ad abundantiam, ma che gli operatori del settore se le leggano molto bene ai fini di evitare che inutile contenzioso in materia previdenziale intasi le aule giudiziarie in occasione di questa Sentenza della Corte di Appello Lavoro di Ancona.
A questo punto una particolare attenzione occorre porre sul concetto giuridico di “terzietà”, soprattutto in relazione alle figure del RLS e del Medico competente che sono estranei a tale concetto giuridico. Infatti nel nostro ordinamento civile al fine di garantire l’assoluta equità dei procedimenti civile e penali e amministrativi, è stabilito che il giudice adito, ovvero il giudice che per competenza è investito del procedimento che gli è stato assegnato dal tribunale, deve essere super-partes e cioè garantire i valori costituzionali di terzietà ed imparzialità del giudice come espresso nell’art. 111 Cost.
E’ pacifico individuare il connotato essenziale della giurisdizione nel fatto di essere esercitata da soggetti che siano terzi ed imparziali rispetto agli interessi in gioco. Nel nostro ordinamento si tratta di principi espressamente proclamati nel testo dell’art. 111 Cost., come poi modificato dalla legge costituzionale 23.11.1999, n.2, ove si stabilisce che ogni processo debba svolgersi “davanti ad un giudice terzo ed imparziale”.
Va comunque detto che numerosi commentatori hanno dubitato del contenuto innovativo della riforma costituzionale, argomentando che la centralità del principio di terzietà ed imparzialità del giudice si poteva già cogliere nitidamente dal contesto dei valori costituzionali posti a fondamento e disciplina dell’attività giurisdizionale. Tanto che, proprio sul presupposto della sua esistenza, si è sviluppata, soprattutto nell’ultimo decennio, una fiorente giurisprudenza costituzionale, tutta incentrata sulla definizione dei concetti di terzietà ed imparzialità e sulla corrispondente costituzionalità dei congegni codicistici posti a presidio degli stessi: l’incompatibilità, l’astensione e la ricusazione dei giudici da ritenersi in posizione di parzialità.
E che i principi in discorso si potessero cogliere, implicitamente o esplicitamente, dalla Carta Costituzionale già prima della novella del 1999, oltre che dalla stessa legislazione ordinaria, lo si desume proprio dai concetti individuati da tali filoni giurisprudenziali.
In particolare, il caposaldo del concetto di terzietà si sviluppava dalla lettura dell’art. 101, comma secondo, Cost. che, nello stabilire che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, presuppone necessariamente una salda indipendenza dell’organo decidente da qualsiasi fattore esterno alle norme di legge da applicare nel caso sottoposto al suo esame.
La figura di un organo giudicante oltre che indipendente ed imparziale anche in posizione di terzietà rispetto agli interessi in gioco nel processo è stata poi costruita attorno ai parametri costituzionali ricavabili dagli artt. 3, 24 e 25 della costituzione.
Infatti, l’art. 25, affermando che nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge, non fa altro che rispondere alle esigenze di imparzialità , obiettività ed uniformità connesse alla funzione giurisdizionale, devolvendola ad un organo naturalmente precostituito per legge prima dell’insorgere dell’azione giudiziaria; mentre l’art. 24 Cost., garantendo la generale possibilità di agire in giudizio, nonché¨ l’assoluta inviolabilità del diritto di difesa, pone il nucleo essenziale del diritto alla tutela giudiziaria che costituisce senz’altro il solido presidio del diritto ad un giudizio equo ed imparziale.
Ora, se si coniugano tali principi con quello di uguaglianza posto dall’art. 3 Cost., ecco che emergono i caratteri essenziali del “giusto processo”, la cui piena attuazione postula la terzietà -imparzialità della giurisdizione. D’altra parte, si tratta di principi pure espressamente proclamati in trattati e convenzioni internazionali cui l’Italia aveva aderito ben prima della novella costituzionale del 1999.
Si pensi alla fondamentale importanza assegnata all’imparzialità del giudice dagli strumenti normativi più significativi in tema di salvaguardia dei diritti naturali dell’uomo: e cioè¨ negli artt. 6, numeri 1, 14 e 10, rispettivamente, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, del Patto internazionale sui diritti civili e politici e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. In tutte e tre le norme con identiche parole si afferma che: “Toute personne a droit a ce que sa cause soit entendue […] par un tribunal independent et impartial”.
Analoghi principi sono poi ricavabili dalla legislazione ordinaria: si pensi proprio alla disciplina codicistica in materia di incompatibilità, astensione e ricusazione, nonché al capo II del titolo I dell’ordinamento giudiziario (articoli da 16 a 19), ove si disciplina proprio il regime delle incompatibilità per i magistrati ad esercitare funzioni proprio in vista della tutela dell’imparzialità del giudice e del suo disinteresse per gli affari sottoposti alla sua competenza. Sulla scorta di tali principi ha operato la giurisprudenza costituzionale, affermando la costituzionalizzazione della regola del giusto processo e della necessità di un giudice terzo ed imparziale anche in pronunce rese nella vigenza del codice Rocco.
Tutto ciò premesso appare assolutamente evidente come soltanto un giudice assolutamente estraneo agli interessi delle parti in causa possa essere considerato un giusto giudicante, cosi come lo deve essere altresì il consulente tecnico d’ufficio chiamato a redigere perizia su questioni tecniche che esulano dalla competenza dell’organo giudicante, in questo senso anche il medico legale nominato del giudice attraverso il giuramento nel corso del procedimento processuale è da considerarsi in condizione di terzietà rispetto alle parti in causa e rispetto ai consulenti tecnici di parte che esaminano la questione tecnica nell’interesse delle parti processuali.
Alla luce di tutto quanto esposto essendo le figure del RLS e del Medico competente, nominate e svolgenti funzioni e a tutela di interessi che solo in apparenza sembrano essere a favore dei lavoratori, in realtà sono chiamati e pagati dallo stesso datore del lavoro e pertanto non in posizione di terzietà così come invece dovrebbero essere nell’esercizio del loro lavoro, tanto più considerando la particolare natura dell’interesse del lavoratore nel vedersi garantito il diritto alla salute anche sul luogo di lavoro, come supremamente affermato nell’art 32 della Costituzione Italiana.
Dr. Carmelo Galipò, medico legale
Avv. Bruno Lantini
Dr. Carmelo Marmo, medico legale
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