Il termine mobbing significa assalire, soffocare, vessare o malmenare; da circa un decennio viene riconosciuto dalla giurisprudenza e risarcito

Il mobbing è un fenomeno di rilevanza sociale, che da diversi anni è al centro del dibattito tra giuristi e istituzioni, oltre che oggetto di tormentate vicende giudiziarie e mass-mediatiche.

Il solco è stato tracciato lucidamente dalla Suprema Corte nel 2010 (Cass. Civ., Sez. III, n. 2352/2010).

Nel linguaggio corrente, con il termine mobbing si viene a indicare una forma di vessazione, di aggressione e, talvolta, di danneggiamento perpetrata nei confronti di uno o più lavoratori.

La condotta vessatoria (o mobbizzante) assume rilievo anche al di fuori dell’ambito lavorativo, e può essere consumata in un contesto familiare, scolastico e di comuni relazioni.

Le forme che il mobbing può assumere nei confronti della vittima possono consistere in pressioni o molestie psicologiche, calunnie sistematiche, maltrattamenti verbali ed offese personali, minacce od atteggiamenti miranti ad intimorire ingiustamente od avvilire, anche in forma velata ed indiretta, critiche immotivate ed atteggiamenti ostili, delegittimazione dell’immagine, anche di fronte a colleghi ed a soggetti estranei all’impresa.

Il mobbing può anche consistere in forme di esclusione dall’attività lavorativa, ovvero svuotamento delle mansioni, attribuzione di compiti esorbitanti od eccessivi, attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo professionale posseduto, impedimento sistematico ed immotivato all’accesso a notizie ed informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro, marginalizzazione immotivata della vittima rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e di aggiornamento professionale, esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei confronti della vittima, atti vessatori correlati alla sfera privata del lavoratore consistenti in discriminazioni.

Pleonastico affermare, atteso il diritto vivente formatosi sull’argomento e le disposizioni della nostra Carta Costituzionale, che tali condotte provocano una grave lesione della personalità del lavoratore.

Il fenomeno del mobbing ha avuto i suoi esordi grazie agli studi condotti negli anni sessanta dagli Stati Uniti, in particolare, e da altri Paesi anglosassoni.

Con il passare degli anni sono emersi nuovi studi, realizzati dalle organizzazioni specializzate dell’ONU, in particolare, l’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO), che hanno promosso azioni contro la violenza sul luogo di lavoro.

La Svezia (1994 – 1997) è stata il primo Paese europeo a promulgare una legge nazionale sul mobbing.

La Francia nel 2000 ha approvato la legge “lutte contre le harcèlement moral au travail”, specifica sul mobbing. Tale legge prevede, anche, l’introduzione nel codice penale di un’apposita figura di reato dedicata al mobbing. Al di fuori dell’Europa, vi è da segnalare che la disciplina più completa è quella degli Stati Uniti che possiede una normativa antidiscriminatoria (che costituisce, appunto, la base della tutela contro il mobbing), molto precisa e particolareggiata.

Nel nostro Paese il mobbing non gode di un’autonoma disciplina.

Ad ogni modo, fortunatamente, il concetto di molestie e discriminazione è comunque approdato grazie alla disciplina comunitaria (D. Lgs. 215/2003 e 216/2003).

Altro aspetto disciplinato dal Legislatore, e che può assumere rilievo ai fini del mobbing, è costituito dalla normativa in tema di sicurezza sul lavoro, dettata dal D. Lgs. 81/2008. La materia della sicurezza sul lavoro investe, seppur indirettamente, il tema del mobbing nella parte in cui definisce il concetto di salute del lavoratore, non consistente solo nell’assenza di malattia o infermità, ma in uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale del lavoratore.

Per altro verso, il principio generale si rinviene nell’art. 2087 c.c., laddove il datore di lavoro ha l’obbligo di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro.

Nel nostro panorama normativo, come già detto, non esiste una fattispecie di mobbing.

Le condotte integranti il mobbing possono sfociare in reati nei casi in cui siano integrati fatti di violenza privata, lesioni personali, morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, istigazione al suicidio, molestie, molestie sessuali o violenza sessuale, ecc. ecc.

La Suprema Corte di Cassazione ha affermato che “la condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere l’ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell’efficace capacità di mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro” (Cass. Sez. I, n. 33624/2007).

In tale inquadramento ermeneutico la condotta di mobbing integra il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c.p., e non quello di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina.

Infatti, a parere della Suprema Corte, la fattispecie di mobbing presuppone una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro.

Per altro aspetto, il mobbing è stato configurato come delitto di violenza privata, consumata o tentata, nel caso dei datori di lavoro che “costringano o cerchino di costringere taluni lavoratori dipendenti ad accettare una novazione del rapporto di lavoro comportante un loro demansionamento” (Cass., Sez. VI, n. 31413/2006).

In tale contesto, è evidente che la legislazione vigente non configuri un concetto unitario di mobbing, dovendo applicarsi la fattispecie che di volta in volta può essere stata consumata in concreto dal soggetto agente.

Ne deriva che ogni singola condotta posta all’attenzione degli Organi giudicanti quale possibile forma di vessazione in danno del lavoratore, deve essere valutata di volta in volta in base alle conseguenze psico-fisiche ed esistenziali e ai danni in concreto patiti dalla vittima.

Perché il mobbing venga riconosciuto come reato è necessario che tra i due soggetti sussista una condizione di supremazia da una parte e di soggezione psicologica dall’altra, oppure di supremazia e subalternità.

Il lavoratore che lamenta mobbing sul lavoro dovrà dimostrare che il denunciato si trovi in una posizione di supremazia che gli permetta di esercitare un potere direttivo o disciplinare tale da arrivare anche sino al licenziamento e che quindi psicologicamente mette una forte pressione sul lavoratore.

La denuncia (che può essere presentata in sede penale e civile) non dovrà evidenziare solo episodi sporadici configurabili come mobbing sul lavoro, ma episodi che siano continuativamente e sistematicamente vessatori nei confronti del lavoratore, tali da configurarsi come maltrattamenti, oltre alla violazione di norme e all’intento lesivo che si configura nel reato di abuso.

Venendo alla tutela giuridica civile, la Corte di Cassazione ha chiarito che il mobbing configura una violazione dell’obbligo di sicurezza del datore di lavoro, derivante da responsabilità contrattuale. Ad ogni modo, la natura della lesione patita dal lavoratore, potrà configurare violazione extra-contrattuale, con diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale.

In ogni caso, si deve fare riferimento – in caso di illeciti comportamenti reiterati da parte del datore di lavoro – al momento di realizzazione del fatto dannoso, ovvero, al momento della cessazione della permanenza (Cass. SS.UU. n. 13537/2006).

Secondo il consolidato indirizzo della Suprema Corte civile, il mobbing consiste in “un comportamento del datore di lavoro che, con una condotta sistematica e protratta nel tempo e che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, pone in essere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro. Da ciò può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità” (ex multis: Cass., n. 3875/09).

Come visto, si discorre di condotte gravissime, gravemente lesive dell’integrità psico-fisica della vittima ed in ogni caso offensive della dignità e libertà della persona.

Gli Ermellini hanno ribadito che l’accertamento del danno da mobbing esige “una valutazione unitaria degli episodi denunciati dalla vittima, i quali raggiungono la soglia del mobbing ove assumano le caratteristiche di una persecuzione, per la loro sistematicità e la durata dell’azione nel tempo” (Cass., Sez. lavoro, n. 4774/2006).

L’indirizzo adottato dalla Suprema Corte manifesta chiaramente una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2087 c.c., ancorato agli artt. 32 e 41 della Carta Costituzionale.

Il comportamento illecito di mobbing è oggetto di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale.

Vi è da aggiungere che l’ INAIL ha riconosciuto il mobbing come malattia professionale: infatti è stato inserito nella categoria delle malattie professionali non tabellari, cioè non comprese nelle tabelle. Quindi il lavoratore potrà chiedere il risarcimento del danno anche al suddetto Istituto assistenziale.

In conclusione, per completezza, vi è da evidenziare che la Suprema Corte, Sezione penale, ha riconosciuto una forma attenuata di mobbing, denominata straining.

La nota e significativa pronunzia di riferimento è la n. 28603/2013 la quale ha deciso il caso di un impiegato di banca spostato a lavorare in uno sgabuzzino.

Avv. Emanuela Foligno

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