La pronuncia della Corte di Cassazione in esame, sostanzialmente, conferma un consolidato e granitico principio in tema di responsabilità del datore di lavoro per i danni subiti dal lavoratore in seguito a condotte vessatorie e persecutore costituenti il c.d. mobbing.

In assenza di disposizioni normative ad hoc, la giurisprudenza definisce il mobbing come l’insieme di condotte reiterate e sistematiche volte a colpire il lavoratore nella sua dignità umana e professionale, a mezzo di fatti illeciti e/o fatti leciti, che tuttavia considerati all’interno di un unico progetto mortificatorio e denigratorio, assumono un connotato di illeceità e quindi di abuso di diritto.

Conformemente all’orientamento giurisprudenziale generale, la Suprema Corte afferma che la responsabilità del datore di lavoro per mobbing va inquadrata nella fattispecie normativa di cui all’art. 2087 c.c., e ricollegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze scientifiche del momento storico di riferimento.

Pertanto incombe sul dipendente, che lamenti di avere subito – a causa dell’attività professionale svolta – un danno, l’onere di provare: 1) l’esistenza di tale danno 2) la nocività dell’ambiente di lavoro 3) il nesso di causalità tra l’uno e l’altro (Cass., Sez. Lav., sentenza n. 2038 del 29/01/2013).

Il caso

La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 15/4/2011, in riforma del provvedimento del Giudice di prime cure, accoglieva la domanda di una dipendente e condannava l’ASL e il suo Direttore al pagamento di € 30.000,00 in favore della suddetta lavoratrice, a titolo di risarcimento del danno biologico e del danno morale in seguito a condotte datoriali costituenti giust’appunto mobbing.

Il Giudice territoriale – che con sentenza non definitiva si era già pronunciato sulla questione in oggetto, riconoscendo alla lavoratrice un danno alla salute del 10% – liquidava i danni suddetti sulla scorta delle tabelle del Tribunale di Milano, rigettando però la domanda di risarcimento del danno esistenziale per carenza di prova.

Avverso le due sentenze proponeva ricorso per Cassazione il Direttore dell’ASL, cui resisteva con controricorso la lavoratrice, che proponeva, a sua volta, ricorso incidentale, e la ASL, che depositava controricorso incidentale; il ricorrente principale resisteva con controricorso ai ricorsi incidentali e la Asl resisteva con controricorso al ricorso incidentale della lavoratrice.

La Suprema Corte, a mezzo del provvedimento in esame, analizzando le due sentenze gravate (quella non definitiva pronunciata del 2009 e quella definitiva) rilevava la sussistenza dei vizi di legittimità, così come denunciati dal ricorrente principale e dall’ASL, poiché entrambi i provvedimenti impugnati risultavano fondati su elementi astratti, generici, oltre che non adeguatamente provati dalla lavoratrice (ex art. 2967 c.c.).

In particolare, dal vaglio nomofilattico emergeva che la sentenza non definitiva della Corte d’Appello nell’accertamento dei fatti rappresentati dalla lavoratrice si era limitata a richiamare alcune prove testimoniali sulle molestie subite dalla medesima ad opera del Direttore.

Allo stesso modo, la sentenza impugnata, secondo la Cassazione, si riportava alla sentenza penale (peraltro in modo poco chiaro) pronunciata nei confronti del Direttore dell’Asl, dalla quale, secondo i giudici della Corte di Appello di Roma, risultavano confermati i comportamenti vessatori minacciosi e verbalmente violenti nei confronti della lavoratrice e di altre colleghe, nonché le richieste di trasferimento della lavoratrice in ragione delle condizioni di lavoro ed infine l’ingiustificata contestazione di presunta violazione di obblighi contrattuali per la mancata ripresa del servizio dopo un periodo di malattia.

Sicché, la Corte di Appello riteneva la fondatezza delle deduzioni della lavoratrice, affermando dunque che i comportamenti del Direttore dell’Asl costituissero mobbing ai danni della resistente, con conseguente responsabilità di quest’ultimo e della ASL (quest’ultima veniva addirittura considerata direttamente responsabile per gli atti di gestione del rapporto di lavoro e in via indiretta “per culpa in vigilando” per aver omesso di adottare le necessarie misure di salvaguardia dell’integrità psicofisica della lavoratrice in questione).

Per la Cassazione i Giudici della Corte di Appello non avevano precisato su quale parte della sentenza penale richiamata fondassero esattamente la propria statuizione di condanna, non distinguendo oltretutto le diverse condotte ascritte, da un lato, al Direttore e quelle addebitate, dall’altro lato, alla ASL.

Da qui, la Corte Suprema giunge ad affermare espressamente che, in assenza di allegazioni di fatti rilevanti ai fini della valutazione delle condotte costituenti mobbing ai danni della lavoratrice, non si può di certo procedere alla verifica puntuale della loro portata lesiva delle circostanze allegate nei confronti della medesima.

Pertanto, la Corte Territoriale ha clamorosamente errato nell’affermare la responsabilità del Direttore in relazione a fatti non precisati e non riconducibili allo stesso ma a soggetti allo stesso sovraordinati e, richiamando una sentenza penale dal contenuto non chiaramente indicato, si sono ritenuti incongruamente come lesivi nei confronti della lavoratrice fatti la cui portata lesiva nei confronti della stessa non era stata fornita alcuna prova.

Con tale provvedimento gli Ermellini suffragano l’eloquente principio per cui la responsabilità per mobbing non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto essa rientra nella fattispecie dell’art. 2087 c.c., e che l’onere di allegare e provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, spetta al lavoratore.

Avv. Lucrezia Longobardi
(Foro di Bologna)

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