La donna di 33 anni morì nel 2011 per un sovradosaggio del farmaco chemioterapico somministratole per curare un linfoma di Hodgkin, che nella maggior parte dei casi può essere curato con successo

“Un assassinio, la più grave colpa medica mai commessa”. Non ha dubbi, il giudice Claudia Rosini, nelle motivazioni alla sentenza di condanna per la morte di Valeria Lembo, la giovane di 33 anni deceduta al Policlinico di Palermo per un sovradosaggio del farmaco chemioterapico che le era stato somministrato per curarle un linfoma di Hodgkin: 90 milligrammi, invece di 9 (una dose massiccia che, come sottolinea il magistrato sarebbe stata compatibile con “un pachiderma di 600 chili”), che sono stati iniettati alla paziente con una flebo (nonostante le sue stesse perplessità) a causa di una errata trascrizione della prescrizione interna.

“L’utilizzo del termine assassinio non è casuale perché di questo si è trattato, avendo gli imputati cooperato a cagionare la morte di una paziente per avvelenamento somministrandole una dose di Vinblastina dieci volte superiore a quello dovuto” spiega il giudice nelle motivazioni della sentenza, arrivata al termine di un processo durato due anni, ed espresse in 227 pagine.

Valeria Lembo morì per avvelenamento dopo 22 giorni dalla seduta di chemioterapia, ma avrebbe potuto comunque salvarsi: “Solo un ricambio completo del sangue, subito, avrebbe potuto dare una speranza alla paziente. Invece, per ben cinque giorni quell’errore venne mascherato come una gastrite post chemio” e lo zero in più nella somministrazione venne cancellato.

La giudice, a dicembre 2015 condannò cinque dei sei imputati per la morte di Valeria Lembo, tra cui l’ex primario di Oncologia medica.

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