Incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro

La responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, sicché incombe al lavoratore ex art. 2697 cod.civ. – che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute – l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, non configurando, l’art. 2087 cod.civ., una responsabilità oggettiva ma richiedendo un profilo di colpa del datore di lavoro. Lo ha chiarito la Cprte di Cassazione con l’ordinanza n. 38835/2021 pronunciandosi sul ricorso di un lavoratore che si era visto respingere, in sede di merito, la domanda di risarcimento del danno conseguente ad infortunio sul lavoro. La Corte territoriale, in particolare, rilevando che la dinamica dell’incidente era pacifica (caduta all’indietro dell’operaio attrezzista, mentre controllava la chiusura dei bulloni su uno stampo con una chiave inglese), aveva ritenuto insussistente una responsabilità del datore di lavoro, rilevato che non era stata provata la nocività dell’ambiente di lavoro, posto che lo strumento di avvitamento utilizzato (per quanto manuale e non elettrico) era in uso all’epoca e non presentava vizi ed era stato utilizzato correttamente; inoltre la distanza tra i banchi di lavoro era stata ritenuta sufficiente dagli ispettori del Servizio prevenzione igiene sicurezza ambienti di lavoro-Spisal (anche se, al solo fine di evitare incidenti analoghi, la società aveva autonomamente deciso, un anno dopo, di aumentarla di altri 30 cm).

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, il ricorrente denunciava la violazione dell’art. 2087 cod.civ. nonché degli artt. 28, comma 1, e 71, commi 2 e 6, del d.lgs. n. 81 del 2008, 132, secondo comma, cod.proc.cìv. (ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 4 , cod.proc.civ.) avendo egli, sin dal ricorso introduttivo del giudizio, rilevato che lo strumento di lavoro non era adeguato al lavoro da effettuare ossia il serraggio di bulloni da 24 mm ed essendo sempre possibile e prevedibile lo scivolamento della chiave inglese manuale dalla testa del bullone e potendo, l’adozione di una chiave dinamometrica o di un avvitatore, eliminare i fattori di rischio e garantire un migliore livello di protezione della sicurezza, con conseguente sussistenza di un inadempimento datoriale in assenza dell’adozione di comportamenti specifici suggeriti dalle conoscenze sperimentali; la Corte territoriale, poi, aveva adottato una motivazione manifestamente illogica ove aveva rilevato che, nonostante non vi fosse un inadempimento datoriale, la distanza tra í banchi di lavoro era stata aumentata di 30 cm.

Gli Ermellini hanno ritenuto le doglianze inammissibili.

La Corte territoriale aveva escluso la nocività dell’ambiente di lavoro rilevando – conformemente a quanto accertato dal giudice di primo grado – che lo strumento utilizzato dal ricorrente, in quanto manuale, consentiva di dosare la forza, che si trattava di un’operazione abituale per il dipendente il quale, nonostante la caduta rovinosa, aveva atteso il termine del turno per recarsi al Pronto soccorso, che l’esclusione di tale operazione dal Documento di valutazione dei rischi doveva ritenersi corretta (alla stregua delle valutazioni effettuate dallo Spisal) trattandosi di operazione manuale controllabile dal lavoratore e a fronte dell’assenza di violazioni normative; aveva aggiunto che si trattava di strumento “in uso all’epoca”, che non presentava vizi e che la distanza tra i banchi di lavoro era stata ritenuta sufficiente dagli ispettori (ed aveva sottolineato che, seppur a fronte di una indimostrata esigibilità di una diversa specifica condotta protettiva, il datore di lavoro aveva ritenuto, un anno dopo, di ampliare la distanza tra i banchi); si trattava di apprezzamenti di merito che non possono essere oggetto di rivalutazione in sede di legittimità.

La Cassazione ha inoltre specificato che, nel caso in cui si discorra di misure di sicurezza cosiddette “innominate”, ex art. 2087 cod.civ., la prova liberatoria a carico del datore di lavoro risulta generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe.

La redazione giuridica

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