Non costituisce mobbing del datore di lavoro né demansionamento la sola modifica quantitativa delle mansioni

La vicenda è stata trattata dalla Suprema Corte (Cass. Civ., sez. lav., n. 22488 del 9 settembre 2019) che ha espresso il seguente principio di diritto: “Non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, che invece implica una sottrazione di mansioni tale – per la sua natura e portata, per la sua incidenza sui poteri del lavoratore e sulla sua collocazione nell’ambito aziendale – da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con sottilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un conseguente impoverimento della sua professionalità”. A seguito di una modifica organizzativa aziendale, un lavoratore perde il ruolo di caposquadra che ricopriva in precedenza, per tale ragione adisce il Tribunale di Spoleto chiedendo di essere reintegrato nelle mansioni e il risarcimento del danno per mobbing.

Il Tribunale adito, e successivamente la Corte d’Appello di Perugia negano il risarcimento al lavoratore.

La vertenza approda in Cassazione con il medesimo risultato dei giudizi di merito.

La questione trattata riguarda la delicata facoltà del datore di lavoro di modificare nel corso del rapporto le mansioni inizialmente attribuite al dipendente senza incorrere nella violazione dell’art. 2103 c.c.

Tale norma -come noto- stabilisce che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento, delle ultime effettivamente svolte o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito.

La giurisprudenza, prima delle modifiche apportate dal Decreto Legislativo 81/2015, ha affermato che nella comparazione delle mansioni non è sufficiente ancorarsi in astratto al livello di categoria ma occorrerà accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali.

In buona sostanza deve risultare tutelato il patrimonio professionale del lavoratore affinchè la “nuova” collocazione gli consenta di utilizzare il patrimonio professionale acquisito in una prospettiva di miglioramento delle stesse.

Preliminarmente la Suprema Corte chiarisce che qualora il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento da parte del datore di lavoro, è quest’ultimo a dovere fornire la prova della mancanza in concreto del demansionamento.

Il Collegio non ravvisa errori decisionali della Corte d’Appello che non ha ritenuto sussistente quella differenza qualitativa che integra il vero e proprio demansionamento lamentato dal lavoratore in quanto l’attività di capo-squadra dallo stesso svolta era a carattere non rilevante, ma marginale, e investiva un solo operario che -peraltro- non era sottoordinato gerarchicamente.

La conclusione di rigetto del ricorso del lavoratore risulta allineata alle numerose precedenti, si veda ad esempio le risalenti pronunzie del 2000 e del 2001 della Suprema Corte (10284/2000 e 6856/2001) che affermano la necessaria presenza della riduzione qualitativa delle mansioni affidate al lavoratore per poter discorrere di  illecito demansionamento, non rivestendo rilevanza alcuna la mera riduzione quantitativa.

Difatti gli Ermellini ribadiscono che non tutte le modificazioni quantitative delle mansioni affidate al lavoratore integrano l’ipotesi di demansionamento poiché deve farsi riferimento all’incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto.

I precedenti giurisprudenziali degli ultimi quindici anni depongono proprio in tal senso.

Inoltre viene -giustamente- posto in evidenza che quando si discorre di strategie aziendali, il datore di lavoro può procedere a un vero e proprio demansionamento quando sia necessario modificare gli assetti organizzativi aziendali.

In merito alla lamentata lesione alla personalità e al mobbing subito dal lavoratore la Suprema Corte nega seccamente che tali doglianze siano ravvisabili.

Il danno al lavoratore non può considerarsi in re ipsa, cioè valutato in maniera automatica e astratta.

In lavoratore che lamenta lesioni dovute all’illecito demansionamento non deve limitarsi a richiamare l’inadempimento contrattuale del datore, ma ha il preciso onere di fornirne una idonea e dettagliata dimostrazione delle lesioni subite e di allegare in modo specifico la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito.

Il datore di lavoro, per andare esente da qualsivoglia responsabilità, deve assicurarsi che la variazione di mansioni sia tendenzialmente compatibile con le caratteristiche del lavoratore e non eccessivamente pregnante, poiché -sebbene gravi sul lavoratore l’onere della prova del danno subito- il lavoratore può fornire a dimostrazione anche le semplici presunzioni.

Ed è proprio per tale ragione che la valutazione compiuta dal Giudice del Lavoro deve poter basarsi su fatti e rilievi specifici e dettagliati.

Pertanto è del tutto condivisibile da decisione in commento, allineata -peraltro- anche all’orientamento assunto in dottrina.

In conclusione, per un corretto accertamento del demansionamento, occorre verificare che sia accertato il mantenimento in capo al lavoratore della professionalità già acquisita con riferimento alla possibilità di impiego utile delle competenze e della concreta opportunità di accrescimento delle stesse.

Avv. Emanuela Foligno

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