In caso di nullità del contratto part time per difetto dei requisiti forma previsti dalla legge, deve ritenersi costituito un ordinario rapporto di lavoro full time; con conseguente diritto del lavoratore al risarcimento del danno, commisurato alle differenze retributive rispetto all’orario full time non svolto

È quanto emerge dall’ultima sentenza della Sezione Lavoro della Cassazione (n. 14797/2019).

La vicenda

L’azione era stata introdotta da una lavoratrice, dipendente dal 1978 al 1994 a tempo pieno, nonché da maggio a settembre ‘94 part time, di una gelateria intestata ad una ditta individuale.

Dopo essere stata licenziata, la donna aveva proposto azione giudiziale volta ad ottenere la retribuzione parametrata ad un orario full time in ragione del difetto di prova scritta dei rapporti a tempo parziale.

Ma l’istanza non è stata accolta né in primo grado né in appello.

Ed invero, a detta della corte territoriale, in ipotesi di nullità per difetto di forma scritta del contratto part time, prevista ad substantiam dal D.L. n. 726 del 1984, art. 5, convertito in L. n. 863 del 1984, il lavoratore ha unicamente diritto, ai sensi dell’art. 2126 c.c., alle retribuzioni proporzionate alle prestazioni in concreto eseguite, della cui prova deve considerarsi onerato, trovando applicazione la giurisprudenza in materia di lavoro straordinario. Ebbene, tale onere nel caso di specie, non era stato assolto.

Il ricorso per Cassazione

Secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, in caso di nullità del contratto part time il lavoratore ha diritto alla retribuzione commisurata al tempo pieno ove dimostri di aver messo a disposizione del datore di lavoro le proprie ulteriori energie lavorative (Cass. n. 4811 del 1991).

Almeno questo, era quanto sostenuto dalla ricorrente; e in ogni caso, corte territoriale aveva errato nell’averle addossato l’onere di provare le prestazioni in concreto eseguite, come se si trattasse di dimostrare lo svolgimento di un lavoro straordinario.

Ebbene, i giudici della Cassazione hanno accolto il ricorso della lavoratrice perché fondato. In effetti, la corte d’appello aveva deciso aderendo ad un orientamento giurisprudenziale (Cass. n. 4482 del 1991; n. 6487 del 1993; n. 5265 del 1994) ormai superato dalle ultime pronunce della Corte Cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005 e delle più recenti pronunce di legittimità.

La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 210 del 1992, ha affermato principi validi in generale ad individuare le conseguenze della nullità del contratto part time per difetto dei requisiti di contenuto o forma prescritti da norme imperative di legge.

Si legge nella citata sentenza n. 210 (confermata dalla successiva sentenza n. 283 del 2005) che “(…) la nullità – per motivi di forma o procedimentali ovvero per difetto delle condizioni sostanziali di ammissibilità di tali figure contrattuali – della clausola sulla riduzione dell’orario di lavoro, non è comunque idonea a travolgere integralmente il contratto, ma ne determina la c.d. conversione in un “normale” contratto di lavoro senza che vi si spazio per l’indagine – oggettiva o soggettiva – circa la comune volontà dei contraenti in ordine a tale esito”.

La giurisprudenza di legittimità

Gli stessi principi sono stati affermati più volte dalla giurisprudenza di legittimità a proposito della nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro.

In particolare si è sostenuto (cfr. Cass. n. 7244 del 2014; n. 12985 del 2008) che “il D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria anche nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine “per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”.

Ne deriva che, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative, e pur in assenza di una norma che ne sanzioni espressamente la mancanza, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, all’illegittimità del termine, ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso, consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola, pur se eventualmente dichiarata essenziale, e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato”.

I requisiti di forma

La disciplina introdotta dal D.L. n. 726 del 1984 contiene una serie di previsioni, quali l’obbligo di forma scritta ad substantiam. Con specifico riferimento al contratto part time, la Cassazione (Cass. n. 24476 del 2011) ha già avuto modo di affermare che “la nullità della clausola sul tempo parziale, per difetto di forma scritta, anche sulla scorta delle indicazioni offerte con la sentenza della Corte costituzionale n. 283 del 2005, non implica…l’invalidità dell’intero contratto…e comporta, per il principio generale di conservazione del negozio giuridico colpito da nullità parziale, che il rapporto di lavoro deve considerarsi a tempo pieno”.

Da tali premesse – per i giudici Ermellini – discende “che, in caso di nullità del contratto part time per difetto della forma scritta prevista ad substantiam dal D.L. n. 726 del 1984, art. 5, il rapporto di lavoro deve considerarsi come un ordinario rapporto full time, con conseguente diritto del lavoratore alla retribuzione parametrata ad un orario a tempo pieno, previa messa in mora del datore di lavoro quanto alle residue energie lavorative”.

Nullità della clausola part time: le conseguenze

Con specifico riferimento alle conseguenze della nullità della clausola appositiva del termine nel contratto di lavoro, nel regime anteriore all’entrata in vigore della L. n. 183 del 2010, art. 32, la Sezione Lavoro della Cassazione (Cass. n. 12333 del 2009 e precedenti ivi richiamati) ha statuito che “in linea con i principi generali dei contratti sinallagmatici, l’obbligazione retributiva costituisce necessariamente (salve le specifiche eccezioni al principio contemplate dalla legge) il corrispettivo della prestazione di lavoro, cosicché, quando la prestazione manchi per causa imputabile al datore di lavoro, il lavoratore può ottenere soltanto il risarcimento del danno (in linea generale, nella misura corrispondente alla retribuzione) subito a causa dell’impossibilità della prestazione cagionata dal rifiuto ingiustificato del datore di lavoro, concretante inadempimento contrattuale ai sensi e per gli effetti dell’art. 1223 c.c.; Detto in altri termini, qualora il termine apposto dal datore ai vari contratti risulti nullo, il dipendente che vede il suo rapporto di lavoro convertito  in tempo indeterminato ha diritto al risarcimento dei danni subiti a causa dell’impossibilità della prestazione, commisurato alle differenze retributive rispetto all’orario full time non svolto, solo ove risulti la mora accipiendi di parte datoriale, ossia mediante “l’intimazione di ricevere la prestazione o di compiere gli atti che sono da parte sua necessari per renderla possibile” o anche con semplici atti concludenti.

La redazione giuridica

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