“In caso di movimentazione di un conto corrente bancario, è onere del contribuente provare che essa non si riferisce a compensi o prelevamenti non contabilizzati. In difetto, le operazioni oggetto di detta movimentazione vanno a formare, anche per la parte eccedente gli importi contabilizzati, la base imponibile per recuperare la maggior imposta così evasa, oltre interessi e sanzioni”.
Tale principio, contenuto in una decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Macerata 25/08/2011 n° 264, riguardante nello specifico un medico dentista, interviene in una materia in cui l’Agenzia delle Entrate è spesso chiamata a verificare che non vengano sottratte, agli “occhi” del Fisco, somme di denaro che concorrono a formare il reddito del contribuente; e ciò al fine di scongiurare il fenomeno dell’evasione fiscale, che sempre più impegna il nostro Legislatore nella strenua ricerca di strumenti efficaci, in grado di diminuire la pressione fiscale attraverso il dichiarato obiettivo di “far pagare a tutti le imposte dovute”.
In tale contesto, declina l’art 32 DRP 600/73 che, in deroga ai generali principi espressi nell’art. 2697 CC, introduce nel nostro Ordinamento una inversione dell’onere probatorio demandando al contribuente – una volta accertati dalla Amministrazione Finanziaria i dati e gli elementi contabili risultanti dai conti bancari (ed in ciò si esaurisce il suo onere probatorio) – che la non corrispondenza fra questi e quelli contenuti nella propria contabilità non dipende dalla mancata indicazione dei proventi, frutto del proprio lavoro autonomo.
In un settore in cui è forte il sospetto dell’indebito costume di non contabilizzare dei compensi, che nel gergo comune costituiscono il c.d. “nero”, la deroga ai principi che regolano l’onere probatorio (per cui onus probandi incumbit eius qui dicit) appare del tutto giustificata sulla base dei principi costituzionali che impongono un dovere di solidarietà tra tutti i consociati.
Il caso, come visto, ha riguardato un medico dentista che aveva impugnato un avviso di accertamento emesso dalla Agenzia delle Entrate territorialmente competente, con cui si intendeva recuperare a tassazione un maggior reddito imponibile e conseguentemente applicare maggior imposte, oltre interessi e sanzioni. L’accertamento era stato fondato sulle risultanze di indagini finanziarie compiute anche attraverso l’esame della posizione del professionista in ordine a diversi rapporti bancari.
Riteneva, l’Agenzia delle Entrate, che, in relazione a tali operazioni, il contribuente non avesse fornito la prova della loro correlazione ad operazioni contabilizzate e comunque prodotto valida documentazione in grado di superare la presunzione di cui all’art. 32 co. 1 e 2 DPR 600/73. Sulla base di detti accertamenti, l’Ufficio recuperava compensi non contabilizzati di € 63.000,00, prelevamenti non giustificati di € 14.936,91 per cui accertava, ex art. 39 co. 1 lettera c) del DPR 600/73, un maggior reddito imponibile di € 78.137,81 donde la maggior imposta liquidata e relativi interessi o sanzioni.
La Commissione Tributaria, sulla base degli indicati principi, riteneva fondato l’accertamento limitatamente al maggior importo di € 63.000,00 ridotto ad € 62.200,00. Ed invero il medico dentista non avrebbe provato che, a fronte di determinati accrediti sul c/c bancario, gli stessi si riferissero ad operazioni contabilizzate. Il che doveva escludere la fondatezza delle doglianze del contribuente, peraltro incompatibili con gli studi di settore che, pur non apparendo determinanti, costituivano forti elementi indiziari di una maggiore capacità contributiva del professionista rispetto a quella dichiarata.
Insomma, per quanto emerge dalla decisione in questione, in un caso analogo a tanti altri che coinvolgono la categoria dei lavoratori autonomi, possiamo trarre le seguenti conclusioni. Nel caso di accertamento analitico-contabile, come quello relativo al caso del dentista su riportato, la incompletezza o falsità dei dati indicati nella dichiarazione dei redditi si evince, in modo certo e diretto, per quanto qui interessa, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti bancari forniti dall’Ufficio accertatore: in ciò si esaurisce ed è soddisfatto l’onere probatorio a carico dello stesso Ufficio.
In presenza di un avviso di accertamento fondato sulle verifiche di conti correnti bancari, è onere del contribuente fornire “una prova non generica bensì analitica” che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili. Trattasi di una presunzione che, in quanto di fonte legale (art. 32 DRP 600/1973), non necessita dei requisiti della gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 CC. In questo senso è attestata una giurisprudenza di legittimità oltremodo consolidata citandosi, tra le più recenti decisioni, Cass. 6909/2011, Cass. 10036/2011, Cass. 10573/2011, Cass. 10101/2012, Cass. 545/2016, Cass. 19857/2016, tutte della Sezione Tributaria. Tale orientamento è stato, da ultimo, confermato dalla Cassazione con ordinanza 09/02/2017 n° 3447.

 Avv. Antonio Arseni

Foro di Civitavecchia

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