Le offese su facebook espresse nei confronti di collega di lavoro ed aventi contenuto altamente discriminatorio e denigratorio giustificano la decisione datoriale di risolvere il contratto senza preavviso, poiché incidono irrimediabilmente sul vincolo fiduciario del rapporto

Le offese su Facebook contro il collega

La società datrice di lavoro aveva deciso di licenziare un proprio dipendente dopo aver ricevuto una comunicazione da parte del responsabile delle risorse umane di un altro dipendente, che si era sentito pesantemente insultato e denigrato dal collega. Quest’ultimo, avrebbe postato sul proprio profilo facebook “aperto”, e dunque visibile a tutti gli utenti, alcuni messaggi contenenti gravissime offese ed insulti sessisti e diffamatori indirizzati al predetto.

Per queste ragioni, la società datrice di lavoro, dopo aver ricostruito la vicenda in questi termini aveva deciso di licenziare il proprio dipendente. Non vi erano dubbi, infatti, che il contenuto di quei messaggi fosse gravemente offensivo e che vi fosse più di una ragione per ritenere che le offese fossero indirizzate al lavoratore che aveva fatto la segnalazione, per di più postati su un profilo pubblico e in una modalità che li rendeva visibili a chiunque vi accedesse, e che dunque lo stato di prostrazione ed ansia in cui si era venuto a trovare la vittima, fosse pienamente fondato e per altro condiviso con altri colleghi.

L’azione dinanzi al Tribunale di Roma

Tanto premesso, con ricorso al Tribunale di Roma il lavoratore licenziato aveva chiesto che fosse accertata l’illegittimità e/o invalidità del licenziamento e di condannare la società convenuta a reintegrarlo nel posto di lavoro precedentemente occupato e di corrispondergli un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, oltre al pagamento dei contributi assistenziali e previdenziali dalla data del licenziamento fino a quella della effettiva reintegrazione.

Ma il Tribunale di Roma (Quarta Sezione, n. 1269/2020) ha rigettato la domanda perché infondata. Invero, le espressioni utilizzate dal ricorrente, consistite specificamente in “commenti discriminatori, sessisti e chiaramente diffamatori nei confronti di un collega”, sono astrattamente idonee ad integrare il reato di cui all’art. 595 c.p. , e in ogni caso motivano la decisione datoriale di risolvere il contratto senza preavviso avendo irrimediabilmente inciso sul vincolo fiduciario del rapporto.

Avv. Sabrina Caporale

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