Il debito erariale rilevante ai fini del reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto è solo quello oggetto della dichiarazione annuale

“In tema di reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, l’emissione della fattura, se antecedente al pagamento del corrispettivo, espone il contribuente, per sua scelta, all’obbligo di versare comunque la relativa imposta sicché egli non può dedurre il mancato pagamento della fattura né lo sconto bancario della stessa, quale causa di forza maggiore o di mancanza dell’elemento soggettivo”.

Il principio è stato richiamato dalla Terza Sezione Penale della Cassazione (35193/2019) nell’ambito di un procedimento penale a carico del legale rappresentante di una società, imputato per il reato di omesso versamento Iva.

In primo grado il Tribunale di Roma lo aveva già condannato perché nella predetta qualità, aveva omesso di versare, entro i termini previsti per il pagamento degli acconti relativi ai periodi di imposta successivi, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alle dichiarazioni annuali per gli anni 2009 e 2010.

La pronuncia era stata confermata anche in appello. Cosicché la vicenda è finita dinanzi ai giudici della Suprema Corte, i quali hanno respinto il ricorso affermando che “ai fini della integrazione del reato di omesso versamento dell’IVA di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10 ter, l’entità della somma da versare, costituente il debito IVA, è quella risultante dalla dichiarazione del contribuente e non quella effettiva, desumibile dalle annotazioni contabili” (Cass. Sez. 3, n. 14595 del 17/11/2017).

Non rileva neanche, per ragioni di tipicità, se l’importo relativo all’Iva sia stato effettivamente incassato.

La citata pronuncia della Cassazione ha, infatti, affermato che il debito erariale non deve risultare dai registri delle fatture emesse o dalle fatture o dalla contabilità di impresa o, ancora, dal bilancio: il debito erariale rilevante ai fini del reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto è solo quello oggetto della dichiarazione annuale.

La presentazione della dichiarazione, infatti, costituisce un presupposto necessario ai fini della consumazione del reato (principio affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 37424 del 28/03/2013), tant’è che l’autore del reato deve necessariamente rappresentarsi che l’oggetto della condotta omissiva sia esattamente (ed esclusivamente) il debito dichiarato, non quello risultante aliunde.

Con la citata sentenza le Sezioni Unite hanno anche chiarito che, ai fini della configurazione del reato, la prova del dolo è insita, in genere, nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine previsto.

La decisione

Il tema della non corrispondenza del debito dichiarato (superiore alla cd. “soglia”) con quello che risulta dalla contabilità dell’impresa (in ipotesi ad essa inferiore) non ha perciò, alcuna rilevanza posto che la fattispecie, per chiara scelta legislativa, non è strutturata intorno al debito effettivo, ma solo a quello dichiarato.

È stato infine, precisato che “in tema di reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, l’emissione della fattura, se antecedente al pagamento del corrispettivo, espone il contribuente, per sua scelta, all’obbligo di versare comunque la relativa imposta sicché egli non può dedurre il mancato pagamento della fattura né lo sconto bancario della fattura quale causa di forza maggiore o di mancanza dell’elemento soggettivo” (Cass. Sez. 3, n. 38594 del 23/01/2018).

La redazione giuridica

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