Dell’inadeguata prestazione sanitaria del medico risponde ex contractu anche l’Azienda ospedaliera. È quanto ha ribadito il Tribunale di Taranto in una recente sentenza (n. 136/2020)
La vicenda
L’attore aveva citato in giudizio l’Azienda Sanitaria Locale di Taranto ed un medico chirurgo operante presso il reparto di ortopedia e traumatologia, per sentirli condannare in solido al risarcimento del danno non patrimoniale sofferto a seguito della negligente ed incauta prestazione sanitaria e dell’inadeguato trattamento post operatorio.
Il paziente era stato ricoverato d’urgenza presso la struttura ospedaliera in seguito ad un infortunio sul lavoro, allorquando si procurò una profonda ferita al polpastrello distale del terzo dito della mano destra, che secondo i sanitari della struttura di ortopedia e traumatologia dell’Ospedale convenuto in giudizio, richiedeva l’intervento chirurgico di asportazione dell’ultima falange del dito medio.
Nell’occorso, la condotta del personale sanitario dell’Ospedale si era rivelata inadeguata alle esigenze e possibilità concrete di cura del paziente.
Tanto era risultato dai rilievi del CTU, le cui puntuali valutazioni, sono state condivise dall’adito Tribunale di Taranto.
L’ausiliario aveva osservato che, al cospetto di una “lesione (da taglio) del dito al livello del polpastrello senza schiacciamento e frattura dell’osso sottostante”, i sanitari avrebbero dovuto avere un diverso approccio diagnostico e terapeutico.
Ed invero, “le (uniche) Linee guida sul percorso diagnostico assistenziale all’epoca vigenti, redatte sotto l’egida della Società italiana della chirurgia della mano, imponevano, in primis, il trasferimento presso un centro di chirurgia della mano di I livello (nell’occorso, il Centro più vicino).
L’avvio presso la struttura altamente specializzata, “era essenziale per l’esecuzione di un intervento mirato alla salvaguardia del polpastrello in una fattispecie che non presentava controindicazioni al reimpianto”; e in ogni caso “la decisione finale di tentare o meno un reimpianto di un dito singolo” avrebbe dovuto essere basata “sull’attenta valutazione dei bisogni funzionali, estetici e sociali del paziente e sul bilancio dei rischi a fronte dei benefici (….)” ed invero, nel caso in esame, si era in presenza di “specifiche esigenze cosmetiche, legate ai desideri del paziente o ai bisogni per determinate attività lavorative”.
L’inadeguata prestazione sanitaria
I sanitari avevano, invece, scartato l’ipotesi di un trasferimento del paziente e, quel che più rileva, avevano optato per l’urgente regolarizzazione della falange distale e delle parti molli in assenza di un rischio di grave contaminazione della lesione e di altre controindicazioni (relative e assolute) al trattamento ricostruttivo.
Il comportamento degli ortopedici dell’ospedale evidenziava, quindi, profili di responsabilità professionale inquadrabili nella imprudenza, per aver omesso di richiedere visite specialistiche presso un centro primario di chirurgia della mano, e nella imperizia per aver deciso di eseguire l’amputazione traumatica del polpastrello del dito medio della mano destra in luogo della (certamente possibile e, quindi, doverosa) soluzione “conservativa”.
In altre parole, il pregiudizio al bene-salute patito dal paziente per l’asportazione dell’intera falange è stato ritenuto causalmente riconducibile alla condotta negligente del personale sanitario che lo ebbe in cura, per poi dimetterlo dopo due giorni “stante il regolare decorso post operatorio”.
La responsabilità del medico
In particolare, secondo il giudice pugliese il medico convenuto in giudizio, che aveva concordato e svolto, in équipe, l’operazione di regolarizzazione, non aveva agito secondo la dovuta diligenza e prudenza richieste dalla lex artis, incorrendo pertanto in colpa professionale (art.1176/2 c.c.).
Al riguardo si è detto che la responsabilità da “contatto sociale” con il paziente che, ancorchè non fondata sul contratto, ha natura negoziale: nel contatto sociale è, infatti, da ravvisarsi la fonte di un rapporto che quanto al contenuto non ha ad oggetto la “protezione” del paziente bensì una prestazione che si modella su quella del contratto d’opera professionale, in base al quale il medico è tenuto all’esercizio della propria attività nell’ambito dell’ente con il quale il paziente ha stipulato il contratto, ad essa ricollegando obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi emersi o esposti a pericolo in occasione del detto “contatto”, e in ragione della prestazione medica conseguentemente da eseguirsi. Tale situazione si riscontra nei confronti di una professione c.d. protetta (per la quale è cioè richiesta una speciale abilitazione, particolarmente quando essa abbia ad oggetto beni costituzionalmente garantiti come il bene della salute, tutelato dall’art.32 Cost. (Sezionu Unite n. 08/8577).
Della negligente prestazione sanitaria – ha aggiunto il giudice di primo grado – risponde ex contractu anche l’Azienda ospedaliera.
Al riguardo la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “l’accettazione del paziente in una struttura, pubblica o privata, deputata a fornire assistenza sanitario-ospedaliera comporta la conclusione inter partes di un contratto di prestazione d’opera atipico (di “spedalità”), in base al quale l’ente sanitario è tenuto ad una prestazione complessa che, oltre alle obbligazioni lato sensu “alberghiere”, ingloba l’effettuazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche, la messa a disposizione del personale medico (e paramedico) e l’apprestamento delle strutture tecniche necessarie”.
Ne discende che, in presenza del contratto di spedalità, la responsabilità dell’ente ospedaliero o della casa di cura privata nei confronti del paziente ha natura negoziale, e può conseguire, ai sensi dell’art.1218 c.c., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico nonché, ai sensi dell’art.1228 c.c., all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta dal sanitario, quale suo ausiliario, pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione del medico e l’organizzazione aziendale dell’ente, che si avvale dell’attività del professionista. (Cass. Sez. Unite 02/9556).
Il diritto al risarcimento del danno
Per queste ragioni il Tribunale di Taranto ha ritenuto di condannare in solido i convenuti al risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione dell’integrità psicofisica causata all’attore.
Ed invero, non poteva certo dubitarsi che nel caso di specie, l’attore avesse patito un danno qualificabile come “biologico”, puntualmente accertato dal CTU e quantificato nella somma di Euro 4.158,72.
Non sono stati, invece, ravvisati i presupposti per l’aumento “personalizzato” del danno di cui al comma 3 dell’art.139 codice assicurazioni, poiché il danneggiato non aveva allegato e provato elementi peculiari a sostegno di un maggior pregiudizio sofferto.
La redazione giuridica
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