Per il codice della privacy l’attività di diffusione è intesa come la conoscenza dei dati fornita ad un numero indeterminato di soggetti

La vicenda

La Corte d’appello di Catania aveva condannato l’imputato alla pena ritenuta di giustizia e al risarcimento dei danni in favore della persona offesa, per aver commesso il reato di cui agli artt. 81 cod. pen. e 167 del Codice della Privacy.

L’uomo era accusato di avere utilizzato, senza il suo consenso, i dati personali della vittima, la quale risultava iscritta, mediante un falso profilo, sul sito di un social network di incontri, nella stanza denominata “sesso”; ed invero, la registrazione era avvenuta attraverso un IP riconducibile all’utenza telefonica mobile intestata all’imputato.

La violazione della privacy

Come noto, l’art. 167 del D.Lgs. n. 196 del 2003, nel testo vigente ratione temporis, incriminava la condotta di chi, al fine di trarre per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procedesse al trattamento di dati personali, in violazione di quanto disposto dagli artt. 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell’art. 129. L’art. 4, comma 1, lett. b) del medesimo D.Lgs. nel testo allora vigente, identificava il “dato personale” come qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili anche indirettamente; e la lett. a) definiva il “trattamento” come qualunque operazione o complesso di operazioni concernenti la comunicazione e la diffusione di dati, ossia la conoscenza dei dati fornita ad un numero indeterminato di soggetti (le nozioni sono oggi rispettivamente riprodotte, in termini sostanzialmente sovrapponibili nei numeri 1 e 2 dell’art. 4 del regolamento (Ue) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, richiamato nell’attuale art. 1 del d.lgs. n. 196 del 2003).

La condotta di diffusione dei dati

Nel caso di specie, la condotta di diffusione, in quanto programmaticamente destinata a raggiungere un numero indeterminato di soggetti, si caratterizzava per la continuatività dell’offesa derivante dalla persistente condotta volontaria dell’agente (che ben avrebbe potuto rimuovere i dati personali resi ostensibili ai frequentatori del social network).

Secondo una distinzione da tempo recepita dalla giurisprudenza di legittimità, i reati istantanei sono quelli nei quali l’azione antigiuridica si compie e si realizza definitivamente col verificarsi dell’evento, cosìcché in tale momento il reato stesso viene ad esaurirsi. Sono permanenti, invece, i reati in cui, nonostante il realizzarsi dell’evento, gli effetti antigiuridici non cessano, ma permangono nel tempo per l’impulso della intenzionale condotta dell’agente.

La decisione

In base a tale impostazione, la Corte ha potuto stabilire che l’illecito posto in essere dall’imputato, perfezionatosi nel momento di instaurazione della condotta offensiva, si fosse consumato, agli effetti di cui all’art. 158, primo comma, cod. pen., dal giorno in cui era cessata la permanenza.

Per tutte queste ragioni i giudici della Terza Sezione Penale della Cassazione (n. 42565/2019) hanno confermato la decisione impugnata, con conseguente condanna del ricorrente alla pena ritenuta di giustizia.

La redazione giuridica

Leggi anche:

ABUSA DI UNA QUINDICENNE CONOSCIUTA SU FACEBOOK: CONDANNA DEFINITIVA

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui