Non è consentito al giudice di merito condannare l’imputato sulla base delle sole prospettazioni del consulente tecnico di parte civile
La vicenda
Secondo l’accusa, nel 2011, un dentista eseguì un intervento di estrazione di un dente nei confronti della costituita parte civile, “omettendo i necessari approfondimenti radiografici volti alla più accurata definizione dell’anatomia del sito operatorio, cagionando così la lesione irreversibile del nervo linguale.
Contro la sentenza di condanna della Corte d’appello di Venezia, per il delitto di lesioni personali colpose, l’imputato ricorreva per cassazione, contestando tra gli altri motivi, il rigetto, da parte del giudice di merito, della richiesta di espletamento di perizia medico-legale, ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen.
La Corte territoriale, si era infatti basata, esclusivamente sulle dichiarazioni della persona offesa, fondate – a giudizio della difesa – “su suggestioni personali e psicologiche e su interpretazioni soggettive, nonché sulla consulenza effettuata, su incarico della parte civile, sulla base di documentazione radiografica risalente e di un semplice colloquio anamnestico svoltosi con la persona offesa, senza alcun accertamento di natura tecnica, nonché carente sotto il profilo valutativo ”.
Non era stato, appurato se e in che misura vi fosse stato consenso all’atto sanitario; quali fossero le specifiche linee- guida o le buone pratiche clinico-assistenziali cui l’imputato non si sarebbe attenuto; se le cautele adottate dall’imputato fossero ordinariamente attuate in casi come quello in esame; quali fossero le percentuali indicate dalla letteratura medica in ordine al verificarsi di possibili complicanze dell’intervento; se ed in che misura vi fosse stato un miglioramento nel tempo delle condizioni di salute della persona offesa.
Il giudizio di legittimità
La Quarta Sezione Penale della Cassazione (sentenza n. 28102/2019) ha accolto il ricorso affermando che non è consentito al giudice, fondare la declaratoria di responsabilità dell’imputato sulle sole prospettazioni del consulente della parte civile, sebbene corrispondenti alla ricostruzione fattuale offerta dalla persona offesa.
In primo luogo, i giudici della Suprema Corte hanno inteso ribadire che il codice di procedura penale (art. 220 c.p.p.) prevede l’espletamento della perizia ogniqualvolta sia necessario svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedano specifiche competenze di natura tecnica.
La specificità delle competenze va rapportata alle conoscenze ordinarie dell’uomo medio. La perizia va dunque, disposta allorché occorrano competenze che esulano dal patrimonio conoscitivo dell’uomo medio, in un dato momento storico e in un dato contesto sociale.
È ben vero, poi, che al giudice è attribuito il ruolo di peritus peritorum, ma ciò non lo autorizza affatto ad intraprendere un percorso avulso dal sapere scientifico, avventurandosi in opinabili valutazioni personali, sostituendosi agli esperti e ignorando ogni contributo conoscitivo di matrice tecnico-scientifica.
Iudex peritus peritorum
Il ruolo di peritus peritorum abilita, invece, il giudice a individuare, con l’aiuto dell’esperto, il sapere scientifico accreditato che può orientare la decisione e a farne un uso oculato, pervenendo a una spiegazione razionale dell’evento.
Il perito non è l’arbitro che decide il processo, ma l’esperto che espone al giudice il quadro del sapere scientifico, spiegando quale sia lo stato del dibattito, nel caso in cui vi sia incertezza sull’affidabilità degli enunciati a cui è possibile pervenire.
Toccherà, poi, al giudice tirare le fila e valutare se si sia addivenuti ad una spiegazione dell’eziologia dell’evento e delle dinamiche in esso sfociate sufficientemente affidabile e in grado di fornire concrete, significative ed attendibili informazioni, che possano supportare adeguatamente l’argomentazione probatoria inerente allo specifico caso esaminato.
Nel caso in esame, l’unico supporto scientifico alla declaratoria di responsabilità dell’imputato era costituito dalla consulenza espletata su incarico della parte civile.
Nell tessuto argomentativo della sentenza impugnata non era stato, tuttavia, possibile rinvenire un’adeguata spiegazione delle ragioni per le quali il giudice d’appello avesse ritenuto l’esaustività e incontrovertibilità dei rilievi formulati dal consulente di parte civile. Né era stato possibile desumerli, sia pure implicitamente, ma in modo sufficientemente chiaro, dal complesso giustificativo a sostegno della decisione adottata, nonostante nell’atto di appello la questione fosse stata espressamente devoluta al giudice di secondo grado, con apposito motivo.
I giudici della Suprema Corte non hanno ritenuto neppure sufficiente l’osservazione formulata dalla corte territoriale, secondo cui le valutazioni del consulente di parte sarebbero state attendibili in quando fedeli alla ricostruzione della vittima e coerenti con le conseguenze oggettive derivanti dall’intervento.
L’oltre ogni ragionevole dubbio
Al riguardo, assume un ruolo fondamentale il principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, da considerarsi un pilastro del sistema, il quale “non costituisce soltanto una regola di giudizio ma proietta la propria rilevanza anche sul piano della formazione della prova, imponendo l’acquisizione di materiale probatorio di fonte non unilaterale, in modo che la decisione giudiziale possa fondarsi sull’apporto dialettico di elementi dimostrativi di provenienza contrapposta o, ancor meglio, di provenienza super partes, sì da dar vita a una feconda dialettica conoscitiva e a un quadro probatorio caratterizzato da ricchezza ed affidabilità di apporti cognitivi, nel contesto del quale il giudice possa orientare in modo adeguato le proprie determinazioni”.
Il giudice, infatti, può fare legittimamente propria l’una piuttosto che l’altra delle tesi scientifiche prospettate dai periti d’ufficio o dai consulenti di parte, nell’ambito della dialettica processuale, purché dia congrua ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha disatteso (Cass.,n. 55005 del 10-11-2017) ma deve innanzitutto promuovere questa pluralità ed eterogeneità di contributi cognitivi.
Viceversa, fondare la declaratoria di responsabilità sulle prospettazioni del consulente della parte civile, che si assumono corroborate dalla ricostruzione fattuale offerta dalla persona offesa, significa determinarsi all’interno di un contesto probatorio improntato all’unilateralità degli apporti conoscitivi, senza alcuna connotazione di dialetticità.
La regola di giudizio compendiata nella formula dell”‘al di là ai ogni ragionevole dubbio” impone al giudicante l’adozione di un metodo dialettico di verifica dell’ipotesi accusatoria, volto a superare l’eventuale sussistenza di dubbi intrinseci a quest’ultima, derivanti, ad esempio, da autocontraddittorietà o da incapacità esplicativa, o estrinseci, in quanto connessi all’esistenza di ipotesi alternative dotate di apprezzabile verosimiglianza e razionalità (Cass., Sez 1,n.4111 del 24-10-2011, Rv. 251507).
Aveva pertanto, errato la corte di merito nel fondare la propria decisione sulla base della sola consulenza tecnica della parte civile.
In particolare la Corte di Cassazione ha inteso ribadire l’importanza del contraddittorio tecnico; per tali ragioni la sentenza impugnata è stata cassata con rinvio. La corte territoriale dovrà ora stabilire:
a) se l’atto meclico sub iudice costituisse, all’epoca dei fatti, oggetto di linee-guida; cosa queste ultime prescrivessero; e in mancanza, se vi fossero, al riguardo, buone-pratiche clinico assistenziali; b) se l’imputato si fosse determinato sulla base di linee- guida o di buone pratiche clinico-assistenziali adeguate al caso concreto; e in caso affermativo, se si fosse attenuto ad esse o meno; c) se, invece, fosse configurabile, nel suo operato, una colpa (grave o lieve).
A tal riguardo, la Suprema Corte ha anche richiamato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui al fine di distinguere la colpa lieve dalla colpa grave, possono esser utilizzati i seguenti parametri: a) la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi; b) la misura del rimprovero personale, sulla base delle specifiche condizioni dell’agente; c) la motivazione della condotta; d) la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa.
Avv. Sabrina Caporale
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