Ha errato il giudice di merito nel determinare il danno futuro patrimoniale per la vita lavorativa di un giovane avvocato, in carriera, in modo stabile, cioè secondo lo stesso reddito da questi percepito prima del sinistro, senza tener conto dei probabili incrementi futuri

La vicenda

A seguito di un incidente avvenuto nel 2005, un giovane avvocato subiva gravi lesioni invalidanti. La sua auto si era scontrata con un’altra autovettura. Ebbene, l’assicurazione di quest’ultima, dopo aver riconosciuto la totale responsabilità della conducente nella causazione del sinistro, lo aveva risarcito per l’importo di Euro 337.500.

Insoddisfatto del risarcimento, il danneggiato promuoveva, davanti al Tribunale di Cremona, una consulenza tecnica preventiva ai sensi dell’art. 696 bis c.p.c., per poi convenire davanti allo stesso Tribunale, la compagnia assicuratrice e la proprietaria della vettura, al fine di ottenerne la condanna al risarcimento dei danni che sarebbero stati da lui subiti nella misura di Euro 2.692.835,42, al netto dell’acconto.

In primo grado, l’adito tribunale condannava solidalmente i convenuti, detratto l’acconto, a risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali attorei per l’importo di Euro 411.060, oltre interessi legali dalla pronuncia al saldo. Avendo il danneggiato proposto appello, cui le controparti resistevano, la Corte d’appello di Brescia, con sentenza del 12 gennaio 2017, lo accoglieva parzialmente, condannando tra l’altro, le appellate a integrare il risarcimento del danno non patrimoniale della somma di Euro 41.028 oltre interessi.

Il ricorso per Cassazione

Non ancora soddisfatto il danneggiato proponeva ricorso per Cassazione lamentando la violazione di legge in ordine alla liquidazione del danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa.

La difesa dichiarava, infatti,di aver chiesto un importo risarcitorio di Euro 2.325.805,06 per il danno patrimoniale in relazione a quanto egli avrebbe guadagnato, aumentando progressivamente i suoi redditi, esercitando la sua professione di avvocato. Il Tribunale aveva invece ritenuto che il reddito sarebbe rimasto costante.

In altre parole, il danneggiato censurava la sentenza impugnata per aver determinato il danno futuro patrimoniale per la vita lavorativa in modo stabile, cioè nello stesso reddito annuo che egli percepiva prima del sinistro, senza tener conto dei probabili incrementi futuri, nè della nozione di comune esperienza per cui “ogni libero professionista beneficia di incrementi reddituali in funzione della durata della carriera, per la progressiva espansione delle conoscenze tecniche, dell’esperienza e della clientela”.

Il ricorso, come si evince, verte sulla quantificazione del danno patrimoniale che la vittima dell’incidente avrebbe subito in relazione alla sua capacità di guadagno nella misura in cui questa sarebbe stata lesa dall’evento dannoso.

La difesa del giovane ricorrente aveva affermato che al momento del sinistro stradale il danneggiato “era un giovane professionista destinato ad una brillante carriera che gli avrebbe consentito l’acquisizione di redditi sempre crescenti”; a tal fine, aveva prodotto copia dei modelli unici dal 2001 al 2006, i quali avrebbero dimostrato – a sua detta – “un incremento ragguardevole, in termini percentuali, nel reddito conseguito dall’avvocato nel biennio successivo al primo della sua attività professionale e ciò avrebbe dovuto legittimare il giudice di merito ad una prognosi di aumento costante in ragione del 5% annuo dei compensi percepiti dall’appellante”.

La corte d’appello, al contrario, aveva ritenuto che siffatta documentazione non confermasse quanto addotto nel motivo, rendendo non condivisibile la tesi di un ricalcolo da effettuarsi aumentando il reddito del 5% annuo.

La decisione

La Corte di Cassazione (sentenza n. 16193/2019) ha, invece, ritenuto fondato il motivo di ricorso affermando che “A proposito del danno patrimoniale futuro da perdita di capacità lavorativa specifica, la liquidazione, in rispetto dell’art. 1223 c.c. e del principio – in esso insito – della integralità del risarcimento, deve essere effettuata mediante la moltiplicazione del reddito perduto “per un adeguato coefficiente di capitalizzazione”.

A tal fine devono essere utilizzati come parametri “da un lato, la retribuzione media dell’intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativo o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall’altro, coefficienti di capitalizzazione di maggiore affidamento, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano.”

Siffatto principio è stato pronunciato di recente dalla Terza Sezione Civile della Cassazione (Cass. sez. 3, 28 aprile 2017 n. 1049) con riferimento ad un caso del tutto analogo a quello in esame, cioè un risarcimento da effettuarsi ad un avvocato esercente da pochi mesi la sua attività professionale.

Anche in quell’occasione la sentenza impugnata aveva omesso di considerare “il prevedibile progressivo incremento reddituale che, notoriamente, caratterizza tale attività”.

In definitiva la Suprema Corte ha affermato che “allo “stato dell’arte”, il danno permanente da incapacità di guadagno non può più liquidarsi utilizzando i coefficienti di capitalizzazione approvati con R.D. n. 1403 del 1922, dal momento che questi, sia a causa dell’aumento della durata media della vita, sia a causa della diminuzione dei saggi d’interesse, non sono più idonei a garantire un corretto risarcimento equitativo del danno e, pertanto, a rispettare il dettato dell’art. 1223 c.c.”.

La redazione giuridica

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