Oltrepassati i primi 90 giorni, stabiliti dalla legge per l’IVG, occorre tenere in considerazione anche l’art. 7 in ordine alla sussistenza o meno di possibilità di vita autonoma del feto

I genitori in proprio e quali legali rappresentanti del figlio minorenne citavano a giudizio dinanzi il Tribunale di Pesaro il Ginecologo, il Radiologo e l’Azienda Ospedaliera onde ottenerne la condanna al risarcimento dei danni in proprio e del minore derivati dall’omessa rilevazione diagnostica di  lipomielemeningocele con i ripetuti accertamenti icono-ecografici diretti a diagnosi prenatale.

Con sentenza dell’8 febbraio 2012 il Tribunale di Pesaro rigettava ogni pretesa attorea e la decisione veniva impugnata in appello.

La Corte d’Appello di Ancona,  in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava il Ginecologo per il 50% e – solidalmente – il Radiologo e l’Azienda Ospedaliera per il restante 50% a risarcire i danni non patrimoniali subiti in proprio nella misura di euro 200.000 ciascuno, e a risarcire alla madre i danni patrimoniali nella misura di euro 7000.

La vicenda approda in Cassazione (sez. III, sentenza n. 25156 del 10 novembre 2020) ove viene lamentata la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 194 del 1978, artt. 6 e 7 e dei principi relativi ai requisiti per l’interruzione volontaria della gravidanza dopo il novantesimo giorno ed errata applicazione delle norme e dei principi relativi alle presunzioni.

Secondo i ricorrenti la Corte d’Appello non avrebbe tenuto conto dell’insegnamento di S.U. 22 dicembre 2015 n. 25767 in materia di nascita indesiderata.

Oltrepassati i primi novanta giorni, stabiliti dalla legge per l’interruzione volontaria di gravidanza, occorre tenere in considerazione anche l’art. 7 in ordine alla sussistenza o meno di possibilità di vita autonoma del feto.

Pertanto, sempre secondo i ricorrenti, sono necessari i requisiti positivi di cui all’art. 6, lett. a) e b), unitamente al requisito negativo dell’impossibilità di vita autonoma del feto evincibile dall’art. 7. Quest’ultimo non sarebbe stato vagliato dal Giudice d’Appello, benchè si tratterebbe di un accertamento al cui esito l’art. 7 condiziona la legittima invocabilità dei due requisiti positivi di cui all’art. 6.

Gli Ermellini analizzano l’art. 7 della L. 194 che stabilisce: “Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui dell’art. 6, lett. a) e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”.

Questa norma è stata sempre interpretata nel senso del requisito negativo ovverosia:  escluso il caso di grave pericolo di vita per la donna, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la gestante può esercitare il diritto all’aborto solo in presenza di una condizione negativa, costituita dall’insussistenza di possibilità di vita autonoma per il feto.

Conseguentemente, nel caso in esame, bisognava valutare il grado di maturità del feto nel momento in cui il Medico ha mancato di tenere il comportamento dovuto.

Ciò non risulta essere stato addotto nei giudizi di merito dai ricorrenti che lo pongono attualmente come base della censura; nè risulta che sia stata chiesta o espletata alcuna attività probatoria al riguardo.

Invece, il giudizio di merito si è incentrato esclusivamente sulla diagnosi della malformazione, sulla percepibilità della malformazione mediante gli esami diagnostici effettuati durante la gravidanza, e sulla inclinazione della gestante, se la diagnosi fosse avvenuta, ad abortire.

Ne consegue che l’allegazione fattuale non può essere addotta per la prima volta, quale presupposto dell’applicazione dell’art. 7, al giudice di legittimità.

Riguardo le censure sulla prova presuntiva gli Ermellini evidenziano il tentativo di indirizzare verso una ricostruzione dei fatti alternativa finalizzata a una revisione del merito da parte del giudice di legittimità inammissibile.

In conclusione, il ricorso principale risulta inammissibile.

Venendo ai ricorsi incidentali la Suprema Corte evidenzia la lamentata mancanza di prova di colpa lieve.

Il Medico, ricorrente incidentale, eccepisce che il caso diagnostico in esame è da intendersi di speciale difficoltà.

Richiamando i chiarimenti del CTU e le vicende ospedaliere del neonato, evidenzia l’omessa rilevazione diagnostica della malformazione anche dopo il parto per la sua difficoltà ad essere visualizzata.

Contesta, inoltre, il giudizio di probabilità della visione ecografica della tumefazione espresso dal CTU per la diversa opinione dei periti nominati dal PM, e ribadisce che la diagnosi non sarebbe stata attuabile neppure nelle tre ultime ecografie eseguite dalla gestante.

E’ evidente, osservano gli Ermellini, che tali doglianze sono finalizzate a una valutazione alternativa fattuale sulla possibilità di diagnosticare la malformazione, in particolare criticando il passo motivazionale per cui la responsabilità della ricorrente sarebbe stata, secondo il Giudice d’Appello, “l’avere tranquillizzato la gestante escludendo malformazioni e non consentendole di valutare i rischi o praticare altre opzioni diagnostiche”.

Per tali ragioni la censura è inammissibile.

Il Giudice d‘Appello ha evidenziato, riguardo la posizione della Ginecologa,  che “proprio gli assunti limiti diagnostici delle prestazioni rese avrebbero dovuto, a fronte delle preoccupazioni espresse dalla gestante, indurre responsabilmente la Ginecologa a informarla delle approssimazioni diagnostiche e dei rischi comunque che le modalità e le tecniche di accertamento adottate implicavano”.

La Ginecologa, si è limitata  ad argomentare che non era possibile diagnosticare.

Ebbene, proprio per tale ragione, se davvero così fosse stato, la Ginecologa, invece di tranquillizzare la gestante doveva informarla che gli strumenti diagnostici non potevano affatto escludere i rischi da lei paventati (ed è pacifico che la gestante aveva manifestato la sua preoccupazione per la presenza in famiglia di una severa patologia neurologica).

Riguardo le censure avanzate dal Radiologo e dall’Azienda Ospedaliera gli Ermellini evidenziano che secondo la Corte territoriale la responsabilità del Radiologo deriva dal fatto che non sarebbero stati spiegati “i limiti degli accertamenti effettuati a fronte delle chiare preoccupazioni manifestate sin dalle prime ecografie” dalla gestante, con riferimento all’assenza delle scansioni orizzontali, che avrebbero “facilitato” la visualizzazione di sede posteriore della sacca erniaria.

Il ricorso incidentale viene integralmente rigettato.

Infine, il ricorso incidentale dei genitori riguardo in danno non patrimoniale è anch’esso infondato.

Il danno non patrimoniale patito dai genitori per la nascita indesiderata non è in re ipsa in quanto ogni danno lamentato deve essere allegato e provato, anche per via presuntiva.

Egualmente, tutte le censure rivolte a proposito del danno non patrimoniale sono inammissibili poiché finalizzate a una rilettura fattuale non percorribile in sede di legittimità

In conclusione, il ricorso principale è dichiarato inammissibile e tutti i ricorsi incidentali vengono rigettati, con compensazione per il grado delle spese relative a tutti i rapporti processuali.

Confermata la statuizione d’Appello.

Avv. Emanuela Foligno

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