Tribunale di Padova, II Sezione Civile, 20/05/2016, n. 1579

Il Tribunale di Padova, II Sez. Civile, affronta il tema del diritto al risarcimento del danno conseguente ad un ipotesi di incidente stradale occorso tra una autovettura ed una bicicletta.

Nella specie, gli attori chiedevano il ristoro dei danni materiali, biologici e psichici conseguenti al sinistro che avevano recato gravissime lesioni permanenti alla vittima.

Primo tema, quello della prescrizione. In particolare ci si chiede: quali sono in concreto gli effetti che una condanna generica al risarcimento del danno, contenuta nella sentenza del giudice penale dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione, ha rispetto all’accertamento dell’esistenza di un danno risarcibile in sede di giudizio civile?

Il giudice risolve la questione richiamando un indirizzo giurisprudenziale secondo il quale “In tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito, la previsione dell’art. 2947 cod. civ. (secondo il quale, se il fatto è previsto dalla legge come reato, e per il reato stesso è prevista una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile) si riferisce, senza alcuna discriminazione, a tutti i possibili soggetti passivi della pretesa risarcitoria, e si applica, pertanto, non solo all’azione civile esperibile contro la persona penalmente imputabile, ma anche all’azione civile diretta contro coloro che siano tenuti al risarcimento a titolo di responsabilità indiretta.

E dunque “La condanna generica al risarcimento del danno contenuta nella sentenza del giudice penale dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione non implica alcun accertamento in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, ma postula soltanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della probabile esistenza di un nesso di causalità tra questa e il pregiudizio lamentato, restando salva nel giudizio civile di liquidazione del “quantum” la possibilità di escludere l’esistenza di un danno eziologicamente conseguente al fatto illecito. (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23429 del 04/11/2014 Rv. 633665)”.

Nel caso in esame, la dinamica del sinistro era stata ricostruita dal C.T.U., il quale sin dall’inizio aveva riconosciuto la gravissima negligenza del convenuto che al momento dell’incidente, nonostante avesse avuto la vista ridotta per il sole che tramontava, eseguiva la manovra di svolta dalla strada principale per immettersi nella laterale ad una velocità non consona e senza rallentare o porre in essere alcuna altra manovra che gli consentisse di porsi nella condizione di evitare il velocipede che sopraggiungeva andando a collidere sostanzialmente, senza porre in essere alcuna manovra evasiva.

Il C.T.U. aveva altresì rilevato che il danneggiante avrebbe avuto in concreto la possibilità, dovuta anche alle perfette condizioni di tempo e luogo, per evitare certamente l’impatto se avesse tenuto una condotta di guida consona ai luoghi ed al fatto che i raggi del sole potevano rappresentare un parziale ostacolo alla visione. Al contrario la povera vittima non ebbe alcuna possibilità di evitare l’impatto.

Nessun dubbio, dunque, quanto alla affermazione della esclusiva responsabilità del convenuto nella causazione del sinistro.

Ma come adeguare nello specifico, il risarcimento del danno alla natura ed entità delle lesioni patite dalla vittima?

A seguito dell’impatto quest’ultima era stata dichiarata in stato di inabilità permanente, avendo perso completamente la possibilità di svolgere una vita pienamente autonoma (dovendo, al contrario, dipendere da terzi in molte delle attività quotidiane della vita) e al tempo stesso, trovandosi nella impossibilità di dedicarsi a qualsivoglia attività lavorativa.

“Tutti questi elementi – dichiara l’organo giudicante – consentono di poter riconoscere il massimo della personalizzazione del punto di risarcimento delle tabelle del Tribunale di Milano così da poter liquidare anche il risarcimento del danno morale che, per lesioni di siffatta importanza, è da considerarsi in re ipsa come affermato anche da Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5243 del 06/03/2014 (Rv. 630078) secondo cui “In tema di risarcimento del danno alla salute, la necessaria liquidazione unitaria del danno biologico e del danno morale può correttamente effettuarsi mediante l’adozione di tabelle che includano nel punto base la componente prettamente soggettiva data dalla sofferenza morale conseguente alla lesione, operando perciò non sulla percentuale di invalidità, bensì con aumento equitativo della corrispondente quantificazione, nel senso di dare per presunta, secondo l’ “id quod plerumque accidit”, quanto meno per le invalidità superiori al dieci per cento, l’esistenza di un tale tipo di pregiudizio, pur se non accertabile per via medico-legale, salvo prova contraria, a sua volta anche presuntiva”.

Come determinare a questo punto il quantum liquidabile?

“Pur dandosi atto che le Tabelle del Tribunale di Milano possono essere valorizzate nell’importo massimo, va tuttavia osservato che, nel caso in commento, il ristoro liquidabile non appare in alcun modo satisfattivo del dolore e delle difficoltà che l’attrice sarà chiamata ad affrontare lungo i prossimi 49,7 anni che secondo l’ISTAT, che al 2015 ha rilevato una aspettativa di vita per una donna pari ad anni 84,7, la aspettano. Anzi, nel caso di specie si potrebbe anche verificare il paradosso che, proprio a causa delle continue e costanti cure mediche a cui la parte si dovrà sottoporre in conseguenza delle sue condizioni di salute, la stessa si trovi in realtà a sopravvivere anche ben oltre alle attuali aspettative di vita media”.

Perciò, come ha affermato ormai da tempo la giurisprudenza della Suprema Corte nella sentenza 26972 del 11/11/2008, il Giudice nel liquidare il danno deve liquidarlo nella sua interezza, ma evitando duplicazioni.

Riuscire ad individuare l’interezza di un danno che mira a monetizzare il prezzo del dolore è ovviamente impossibile, così come pretendere di applicare asetticamente le Tabelle milanesi è “insufficiente nel caso di specie per il radicale sconvolgimento della vita dell’attrice che si è vista mutare radicalmente la propria vita in una misura che sarà irrecuperabile per gli anni a venire”.

Parimenti, in punto “di perdita di capacità lavorativa specifica va ricordato che i parametri del R.D. 9 ottobre 1922 n. 1403 sono stati oggetto di valutazione critica ad opera della Cassazione che ha rilevato come tali parametri appaiano scarsamente attuali poiché non sono stati oggetti di rivisitazione”.

Ne deriva l’opportunità di adottare un criterio che cerchi di non sminuire la natura della tipologia di risarcimento omettendo di ridurre il punto di risarcimento in funzione della aspettativa di vita così da cercare di ristabilire un risultato che rappresenti un equo indennizzo per la possibilità di svolgere un lavoro che l’attrice non ha più.

Senza tuttavia tralasciare la necessità di riconoscere al danneggiato tutte le spese per assistenza medica ed infermieristica futura (ossia le spese relative – all’assistenza infermieristica e riabilitativa; – al personale in possesso della qualifica professionale di addetto all’assistenza di base o di operatore tecnico assistenziale esclusivamente dedicato all’assistenza diretta della persona; – al personale di coordinamento delle attività assistenziali di nucleo; – al personale con la qualifica di educatore professionale; – al personale qualificato addetto ad attività di animazione e di terapia occupazionale), e il diritto al risarcimento del danno subito dai prossimi congiunti.

“In caso di fatto illecito plurioffensivo, – ricorda il giudice del capoluogo veneto – ciascun danneggiato – in forza di quanto previsto dagli artt. 2,29,30 e 31 Cost., nonché degli artt. 8 e 12 della Convenzione per i diritti dell’uomo e dell’art. 1 della cd. “Carta di Nizza” – è titolare di un autonomo diritto all’integrale risarcimento del pregiudizio subìto, comprensivo, pertanto, sia del danno morale (da identificare nella sofferenza interiore soggettiva patita sul piano strettamente emotivo, non solo nell’immediatezza dell’illecito, ma anche in modo duraturo, pur senza protrarsi per tutta la vita) che di quello “dinamico relazionale” (consistente nel peggioramento delle condizioni e abitudini, interne ed esterne, di vita quotidiana).

Ne consegue che, in caso di perdita definitiva del rapporto matrimoniale e parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione comprensiva di tutto il danno non patrimoniale subìto, in proporzione alla durata e intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all’età della vittima e a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma e ad ogni altra circostanza del caso concreto, da allegare e provare (anche presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza) da parte di chi agisce in giudizio, spettando alla controparte la prova contraria di situazioni che compromettono l’unità, la continuità e l’intensità del rapporto familiare”. (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 9231 del 17/04/2013 Rv. 626002).

Avv. Sabrina Caporale

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