I controlli possono essere effettuati al fine di verificarne il corretto utilizzo ma senza ledere la libertà e la dignità dei dipendenti

Nel corso di un’ispezione finalizzata alla verifica del rispetto delle disposizioni interne in materia di uso e sicurezza del materiale informatico assegnato ai lavoratori, il dipendente di una banca, a fronte della richiesta di chiarimenti in ordine ad alcuni file video contenuti nel computer, aveva cancellato l’intero disco rendendo impossibile dare seguito all’attività di controllo. Da una successiva verifica dell’archivio informatico, tuttavia, era emersa la presenza di materiale pornografico.
L’uomo era stato licenziato in quanto aveva ostacolato l’attività ispettiva del servizio revisione. Inoltre, aveva violato l’obbligo di tenere una condotta informata ai principi di disciplina, dignità e moralità, oltre ad aver infranto il codice di comportamento che prescrive che i dipendenti della cassa sono tenuti ad utilizzare le apparecchiature esclusivamente per finalità di ufficio. Infine la banca gli imputava di aver esposto l’Istituto di credito “ai rischi conseguenti l’acquisizione nel proprio sistema informatico di file suscettibili di sanzioni e conseguenze penali ove il materiale coinvolgesse minorenni.
Di fronte al ricorso presentato dal dipendente. sia il Tribunale che la Corte d’appello ritenevano illegittimo il licenziamento; il giudice di secondo grado, infatti, sosteneva l’insussistenza del fatto contestato, poiché la banca non aveva dimostrato l’esistenza di documenti di pertinenza aziendale all’interno della parte del disco fisso del pc che era stata cancellata dal lavoratore. Inoltre, il comportamento doveva ritenersi senz’altro scusabile dal momento che gli ispettori avevano travalicato i propri poteri, imponendo al lavoratore l’immediata visione dei file; una richiesta abusiva “perché sproporzionata e tale da lederne la privacy”.
La banca si rivolgeva allora alla Corte di Cassazione la quale rilevava che, “il datore di lavoro può effettuare dei controlli mirati al fine di verificare il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro tra cui i pc aziendali”, nel rispetto della libertà e della dignità dei lavoratori, nonché della normativa in materia di protezione dei dati personali.
Nel caso in questione la Corte d’appello aveva dato per pacifiche le violazioni della privacy, senza effettuare un controllo circa le concrete modalità con cui l’ispezione era stata condotta, volto ad “accertare la reale consistenza delle attività effettuate e delle richieste degli ispettori, nonché la loro conformità con eventuali policy aziendali”.
In virtù dell’omessa considerazione di questo punto fondamentale, la Suprema Corte, con sentenza n. 22313 del 3 novembre 2016, riteneva di accogliere il ricorso dell’Istituto di credito rinviando la causa alla Corte d’appello affinché venisse riesaminata alla luce dei principi evidenziati.
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