Se il fine è quello di tutelare propri beni quali la salute, la vita propria o della propria famiglia, la proprietà privata, in tali casi, l’installazione di telecamere di sorveglianza sulla propria abitazione non integra il reato di violenza privata a danno dei vicini, costantemente ripresi

La vicenda

Il Tribunale di Chieti aveva dichiarato i due imputati, colpevoli del reato di violenza privata consistita nell’installare sul muro perimetrale delle rispettive abitazioni, telecamere a snodo telecomandabile per ripresa visiva e sonora, orientate su zone e aree aperte al pubblico transito, costringendo gli abitanti della zona , e in particolare le costituite parti civili, a tollerare di essere costantemente osservati e controllati nell’espletamento delle loro attività lavorative e nei loro movimenti.
Tali controlli venivano puntualmente riferiti e utilizzati strumentalmente per rimarcare la commissione di presunti illeciti (schiamazzi, parcheggio delle auto fuori dalle aree di sosta consentite; deiezioni animali abbandonante dinanzi al cancello delle abitazioni, e così via), che sarebbero stati perseguiti medianti esposti e denunce poi effettivamente inoltrati alle autorità competenti.
In primo grado la pena era stata determinata in un anno di reclusione, ciascuno, oltre al pagamento delle spese processuali, e al risarcimento dei danni in favore delle parti civili liquidato equitativamente in Euro 1000 cadauno, e alla refusione, in loro favore, delle spese processuali.
La pronuncia veniva confermata anche in appello, sebbene riformata nel trattamento sanzionatorio: sei mesi di reclusione ciascuno e confermata per il resto.
Sulla vicenda si sono pronunciati anche i giudici della Cassazione, a seguito del ricorso presentato dai due imputati.

Il ricorso per Cassazione

Nella specie, la difesa lamentava la violazione di legge in ordine alla configurabilità del reato contestato.
Quanto all’elemento oggettivo, le telecamere installate sul muro perimetrale della propria abitazione non erano funzionanti, poiché nel periodo in contestazione l’abitazione era disabitata per lavori di ristrutturazione, che riguardarono anche l’impianto elettrico, e, comunque, esse erano prive di microfono.
Con riferimento, poi, all’elemento soggettivo, le deposizioni testimoniali delle stesse persone offese avevano consentito di escludere l’intento dei ricorrenti di osservare e controllare gli abitanti della zona, essendo le telecamere finalizzate solo alla tutela della propria sicurezza.
Ebbene, il ricorso è stato accolto.
I giudici della Cassazione hanno confermato l’assunto difensivo non essendo ravvisabile, nella condotta contestata, il reato di violenza privata. .
Come correttamente osservato dalla Corte di Appello di L’Aquila nella sentenza impugnata, la condotta contestata concerneva, non l’ acquisizione di immagini relative alla condotta tenuta da cittadini sulla pubblica via, ma il condizionamento esercitato su alcune persone – e segnatamente sulle costituite parti civili – dagli imputati, mediante la istallazione e l’utilizzo di immagini tratte dai filmati registrati dalle telecamere.

La giurisprudenza e il delitto di violenza privata

Secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, nel delitto di violenza privata è tutelata la libertà psichica dell’individuo, e la fattispecie criminosa ha carattere generico e sussidiario rispetto ad altre figure in cui la violenza alle persone è elemento costitutivo del reato, sicché, esso reprime genericamente fatti di coercizione non espressamente considerati da altre norme di legge, e, per consolidato orientamento di legittimità, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a comprimere la libertà di autodeterminazione e di azione della persona offesa.
Tale principio trova rispondenza in altre pronunce della Corte secondo cui la nozione di violenza è riferibile a qualsiasi atto o fatto posto in essere dall’agente che si risolva comunque nella coartazione della libertà fisica o psichica del soggetto passivo che viene così indotto, contro la sua volontà, a fare, tollerare o omettere qualche cosa, indipendentemente dall’esercizio su di lui di un vero e proprio costringimento fisico (Cass. 39941/2002; Cass.1176/2013).
E’ consolidata, infatti, l’opzione ermeneutica secondo cui l’elemento della violenza, nel reato di cui all’art. 610 cod. pen., si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza «impropria», che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione.

Nel caso in esame, si trattava dunque, di valutare se la condotta dei ricorrenti potesse essere configurata  come violenza privata.

La risposta del Supremo Collegio è stata negativa.
In primis, «perché l’installazione di sistemi di videosorveglianza con riprese del pubblico transito non costituisce in sé un’attività illecita, né lo sono le concrete modalità di attuazione della condotta descritta in imputazione, e neppure è ravvisabile, nel prospettato cambiamento di abitudini che si sarebbe registrato da parte di alcuni abitanti – con l’individuare percorsi alternativi per rientrate in casa, o altre aree di sosta dei veicoli, per sottrarsi alle riprese delle telecamere in questione – l’offesa al bene giuridico protetto dalla norma di cui all’art. 610 cod.pen., trattandosi di condizionamenti minimi indotti dalle condotte contestate, tali da non potersi considerare espressivi di una significativa costrizione della libertà di autodeterminazione».

L’obbligo di segnalazione

Ora, in materia di riprese tramite strumenti di videosorveglianza, l’ordinamento prevede che chiunque installi un sistema di videosorveglianza deve provvedere a segnalarne la presenza, facendo in modo che qualunque soggetto si avvicini all’area interessata dalle riprese sia avvisato della presenza di telecamere già prima di entrare nel loro raggio di azione.
La segnalazione deve essere effettuata tramite appositi cartelli, collocati a ridosso dell’area interessata, ed in modo tale che risultino chiaramente visibili. (“Codice in Materia dei Dati Personali”).
Tali precauzioni e avvertimenti risultavano rispettati nel caso in esame, secondo quanto ricostruito dai giudici di merito.
L’avvertimento in parola è, evidentemente, finalizzato a rendere edotto “quispue de populo” della presenza di strumentazione atta alla captazione di comportamenti che lo riguardano. In tale contesto, se, per un verso, la consapevolezza della presenza del sistema di videosorveglianza può costituire un condizionamento della libertà di movimento del cittadino, d’altro canto, consente a quest’ultimo di determinarsi cognita causa, selezionando i comportamenti consequenziali da tenere.
Si tratta, dunque, di un delicato equilibrio di compromesso tra libertà individuali ed esigenze di sicurezza sociale.
Ma anche la Corte Edu (C. Giust. UE causa C-212/13 dell’11.12.2014.) ha affermato che se il fine è quello di tutelare propri beni quali la salute, la vita propria o della sua famiglia, la proprietà privata, in tali casi, il trattamento di dati personali può essere effettuato senza il consenso dell’interessato, purché vi sia la dovuta informazione e/o segnalazione.
In definitiva, i giudici della Cassazione hanno escluso che il sistema di videoripresa attuato dagli imputati poiché finalizzato proprio alla protezione degli indicati beni primari della sicurezza, della vita e della proprietà privata, fosse lesivo della libertà di autodeterminazione altrui e dunque, integrante la fattispecie di reato di violenza privata, essendo stata, peraltro, rispettata la prescrizione della preventiva informativa al pubblico.

La redazione giuridica

 
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