Una caduta al buio

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Il caso in esame riguarda una signora di 67 anni che, ospite di una località montana di villeggiatura, si trovava a partecipare a una classica serata per villeggianti all’interno della sala teatrale di un centro parrocchiale. Al termine della proiezione cinematografica l’attrice si accingeva a uscire dal locale, quando inciampava su una scalinata a causa di un falso gradino e della mancanza di illuminazione esterna. Purtroppo, i lampioncini a muro erano stati spenti prima che tutti i presenti lasciassero la Parrocchia.

In conseguenza dell’evento, l’infortunata veniva trasportata presso il presidio ospedaliero più prossimo ove le veniva diagnosticato: “trauma al naso, omero e spalla dx, abrasioni al ginocchio sx”. Ella riportava, nell’occorso lesivo de quo, lesioni che determinavano una menomazione dell’integrità psico-fisica valutata in misura di un danno biologico permanente del 8-9%, un danno biologico temporaneo totale di gg. 4, un danno biologico temporaneo parziale al 75% di gg. 60, un danno biologico temporaneo parziale al 25% di gg. 125.

Il caso veniva inquadrato in una classica fattispecie di responsabilità da cose in custodia (così come disciplinata dall’articolo 2051 c.c.), ma i tentativi di definizione stragiudiziale della lite non sortivano buon esito.

Infatti, il Comune (organizzatore dell’evento) e la Parrocchia (titolare del locale dove era avvenuta la proiezione) si addebitavano reciprocamente la responsabilità, e venivano pertanto evocati ambedue in giudizio cosicchè ne risultasse, nel contraddittorio fra le parti, una verità processuale in grado di riconoscere le ragioni e i diritti dell’infortunata.

In corso di causa si svolgeva l’interpello del sindaco del Comune e venivano escussi i testi oculari oltre ad essere espletata una CTU medico-legale sulla persona dell’attrice. Gli interpellati parroco e sindaco confermavano la conformazione dei luoghi che veniva moostrata loro in foto e così pure i testi oculari.

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Questo aspetto risultò poi decisivo ai fini della positiva risoluzione della controversia, giacchè uno degli elementi più importanti (e troppo spesso sottovalutati) delle cause fondate sull’operatività dell’articolo 2051 è proprio quella della prova del fatto storico, delle condizioni spazio-temporali in cui va situato l’accadimento e della sua dinamica.

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Nella fattispecie il luogo mostrato nelle foto prodotte in atti, con la scala di accesso, venne confermato come quello in cui era avvenuta la caduta dell’attrice da tutti i testi oculari e anche dagli interpellati.

Altro aspetto cruciale ai fini del decidere fu la dimostrazione delle modalità della caduta che venne fornita attraverso l’escussione testimoniale delle persone che accompagnavano l’attrice al momento dei fatti le quali confermavano senza tentennamenti il capitolo della memoria istruttoria attorea così articolato: “vero che l’attrice inciampava all’altezza del primo gradino della scala, nel punto indicato nelle fotografie che si mostrano” nonché il successivo quesito (“vero che l’attrice ruzzolava lungo la scala e cadeva a terra ai piedi della scala, mentre il marito tentava di sorreggerla”) al quale uno dei testi rispondeva: “sì, è vero, l’ho visto con i miei occhi, ero lì”.

In sede istruttoria è emerso che, nel giorno del sinistro, era presente una doppia situazione di pericolo costituita dal fatto che la scala di uscita dalla sala parrocchiale non solo non era stata illuminata (nonostante l’orario notturno), ma presentava anche, di per se stessa, una peculiare insidiosa conformazione.

In particolare, una delle testi oculari, riferiva: “sì, è vero la signora è uscita con me e le luci erano spente”; “no, non erano accese” e “non so durante la proiezione, erano spente quando uscimmo alla fine”.

Sugli stessi capitoli di prova un altro teste oculare così rispondeva: “sì, è vero, le luci esterne a muro erano spente”; “no, non erano accese”; “nulla so durante la proiezione; posso confermare che all’uscita erano spente”.

Uno dei testi aggiungeva anche: “non ricordo l’illuminazione della pubblica via, ma provenendo dall’uscita della sala le scale non si vedevano bene”.

Altri testi affermavano che all’esterno della sala parrocchiale erano presenti ben quattro plafoniere esterne tutte spente.

Insomma, venne inoppugnabilmente accertato attraverso la prova testimoniale che tale illuminazione non era stata azionata all’uscita dei presenti dalla sala della manifestazione e pertanto la scala in questione non era sufficientemente illuminata.

Si poteva dunque ragionevolmente affermare che, se di quattro punti di illuminazione presenti fuori dalla sala (di cui uno proprio sopra la scala come era facilmente visibile dalle foto del luogo prodotte in atti), nessuno era acceso durante l’uscita dei partecipanti alla manifestazione, tale illuminazione non potesse essere adeguatamente sostituita dai lampioni presenti lungo la strada provinciale, nè dall’illuminazione a pavimento della limitrofa piazza.

L’attrice era entrata nella sala quando era già buio, alle ore 21.00; infatti, interrogati sul punto i testi oculari che erano giunti insieme alla signora, rispondevano affermativamente.

Dalle risultanze istruttorie emergeva che la conformazione stessa della scala era particolarmente insidiosa. In proposito, il capitolo di prova della memoria (“vero che il primo gradino della scala in questione, a partire dall’alto, è un gradino di altezza inferiore agli altri (circa 7/8 cm.) come da fotografie che si mostrano”) veniva confermato da due testi che rispondevano: “sì, è vero, è conforme alle foto” aggiungendo anche peculiari dettagli e cioè che il primo gradino era costituito da mattoni rosa uguali, nella foggia e nel colore, a quelli che formavano il resto della pavimentazione del cortile di accesso alla porta di ingresso della sala, come da foto.

Anche un’altra circostanza dirimente (“vero che gli altri gradini della scala sono di marmo e di colore bianco punteggiato come da foto”) veniva confermata da due testi oculari.

L’inizio della scalinata era dunque nascosto o comunque mimetizzato (anche in caso di illuminazione), in quanto, come si vedeva bene nelle foto prodotte, la pavimentazione rosa continua indifferenziata fino al margine del gradino. La sua pericolosità era ovviamente anche maggiore in un caso, come quello di specie, in cui l’illuminazione sia completamente assente.

Una simile conformazione dei luoghi unita all’oscurità rendeva impossibile per l’attrice riconoscere dove finisse la pavimentazione e dove iniziasse la scala ove si consideri che il primo gradino aveva un’altezza inferiore agli altri ingenerando così una situazione di squilibrio per gli utenti della scala.

In corso di causa venne anche provato che la scala teatro del sinistro era l’unica via d’uscita per i partecipanti alla manifestazione a cui partecipava l’attrice.

Quanto al fatto che fosse presente in loco anche uno scivolo riservato alle persone invalide che necessitavano di transitare con carrozzella, tale circostanza era inconferente giacché nessuno dei presenti utilizzava il manufatto, riservato a chi ne aveva necessità, cioè a soggetti non deambulanti impossibilitati, in quanto tali, ad accedere tramite una scala.

Venne dunque provato che l’unica via d’uscita era la scala utilizzata dall’attrice e da tutti quelli che uscivano dalla manifestazione organizzata dal Comune negli ambienti parrocchiali.

Nè era possibile alcuna condotta alternativa a quella tenuta dall’attrice, la quale, a causa dell’insidiosità del luogo e dell’omessa accensione delle luci, cadeva sulla scala che consentiva l’uscita dalla struttura.

Nel caso di specie, si imponeva l’applicazione dell’art. 2051 c.c. che così dispone: “ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”.

Giurisprudenza costante della Corte di Cassazione insegna che la responsabilità per danni cagionati da cosa in custodia, ex art. 2051 c.c., ha carattere oggettivo e, perchè possa configurarsi in concreto, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia nel caso rilevante non presuppone nè implica uno specifico obbligo di custodire analogo a quello previsto per il depositario, e funzione della norma è, d’altro canto, quella di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa, dovendo pertanto considerarsi custode chi di fatto ne controlla le modalità d’uso e di conservazione, e non necessariamente il proprietario o chi si trova con essa in relazione diretta.

Ne consegue che tale tipo di responsabilità è esclusa solamente dal caso fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile bensì al profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità, a nulla viceversa rilevando che il danno risulti causato da anomalie o vizi insorti nella cosa prima dell’inizio del rapporto di custodia (ex multis: Cass. civ. n. 8229/10; Cass.civ. n. 5326/05; Cass.civ. n. 15429/04; Cass.civ. n. 472/03; Cass.civ. n. 12219/03; Cass.civ. n. 5578/03; Cass.civ. n. 584/01).

Pertanto le controparti non vanno esenti dall’onere di provare le proprie affermazioni relative alla sussistenza del caso fortuito.

La giurisprudenza di legittimità afferma che “in tema di responsabilità civile per danni cagionati da cose in custodia, per aversi caso fortuito occorre che il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante abbia un’efficacia di tale intensità da interrompere il nesso eziologico tra la cosa custodita e l’evento lesivo, ossia che possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento” (Cass.civ. n. 5658/10).

Si ricordi anche che la responsabilità ex art. 2051, c.c., per i danni cagionati da cose in custodia, ha carattere oggettivo e, perché tale responsabilità possa configurarsi in concreto, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la stessa cosa in custodia ed il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, per cui tale tipo di responsabilità è esclusa solo dal caso fortuito, che attiene non già ad un comportamento del responsabile, bensì allo stesso profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa (che ne è fonte immediata) ma ad un elemento esterno (cfr. Trib. Trani, sent. n. 367/10).

Insomma il “caso fortuito” idoneo ad esonerare il custode dalla responsabilità oggettiva di cui all’art. 2051 c.c., secondo costante giurisprudenza, è quel fatto, estraneo alla cosa in custodia, che abbia i requisiti dell’imprevedibilità e dell’eccezionalità, che sia di per sé idoneo a produrre l’evento, e che abbia avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno (cfr. Cass. civ., sez. III, 10/03/2009, n. 5741; Trib. Trani, 05.05.10 n. 367; Cass. civ., sez. III, 10/10/2008, n. 25029; Cass. civ., sez. III, 17.01.2008 n. 858; App. Roma, sez. III, 13/01/2009; Cass. civ., sez.II, 29/11/2006, n.25243; Cass. civ., sez.III, 20/10/2005, n. 20317).

Nel caso di specie, l’utilizzo della scala di uscita da parte dell’attrice non costituiva certo un fatto eccezionale ed imprevedibile, tale da rappresentare un “caso fortuito”, bensì rispondeva al normale utilizzo della scala, in conformità alla sua natura e alla sua funzione.

Si ricordi che era emerso, in sede istruttoria, che la scala era l’unica via d’uscita dalla sala parrocchiale.

La scala di entrata e di uscita, unica via d’accesso verso la struttura parrocchiale, doveva essere sempre percorribile in condizioni di sicurezza, e rispondeva ad un preciso obbligo del custode mantenerla in buono stato di conservazione, ed adottare tutte le misure necessarie ad eliminare le caratteristiche dannose della stessa, che potessero arrecare pregiudizio ad terzi (cfr. Cass. civ., sez. III, 16/10/2008, n. 25251; Cass. civ., sez. III, 09/11/2005, n. 21684; Trib. Monza, 14/10/2008; Trib. Torino Sez. IV, 18/07/2008; Trib. Milano, 11/08/1997).

In definitiva, le controparti non sono state in grado di fornire alcuna prova liberatoria in ordine alla propria responsabilità nell’occorso ex art. 2051 c.c..

Al contrario, l’attrice ha dimostrato che c’era un sicuro nesso di causa tra la cosa in custodia (scala) e il danno subìto. Significa che solo il “fatto della cosa” è rilevante (e non il fatto dell’uomo); la responsabilità si fonda sul mero rapporto di custodia e solo tale stato di fatto e non l’obbligo di custodia può assumere rilievo nella fattispecie. Il profilo del comportamento del responsabile è di per sè estraneo alla struttura della normativa; nè può esservi reintrodotto attraverso la figura della presunzione di colpa per mancata diligenza nella custodia, giacchè il solo limite previsto dall’articolo in esame è l’esistenza del caso fortuito ed in genere si esclude che il limite del fortuito si identifichi con l’assenza di colpa. Va, quindi, affermata la natura oggettiva della responsabilità per danno di cose in custodia. La dottrina parla, al riguardo, di “rischio” da custodia, più che di “colpa” nella custodia ovvero, seguendo l’orientamento della giurisprudenza francese di “presunzione di responsabilità” e non di “presunzione di colpa”. Insomma, il dato lessicale della norma in esame ritiene sufficiente, per l’applicazione della stessa, la sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo.

Sempre dalla lettera dell’art. 2051 c.c. emerge che il danno è cagionato non da un comportamento (per quanto omissivo) del custode, ma dalla cosa (fait de la chose – art. 1384, comma 1, Code Napoleon), per cui il comportamento del custode è irrilevante. Il custode diligente e perito risponde esattamente come il custode negligente se la cosa ha provocato danni a terzi.

L’unico fattore atto ad esclude la responsabilità del custode, ai sensi dell’art. 2051 c.c. è il caso fortuito ed esso va inteso nel senso più ampio, comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso danneggiato, purchè detto fatto costituisca la causa esclusiva del danno (Cass. 10/03/2005, n. 5326; Cass. 28 ottobre 1995, n. 11264; Cass. 26 febbraio 1994, n. 1947). Poichè la responsabilità si fonda non su un comportamento o un’attività del custode, ma su una relazione (di custodia) intercorrente tra questi e la cosa dannosa, e poichè il limite della responsabilità risiede nell’intervento di un fattore (il caso fortuito) che attiene non ad un comportamento del responsabile (come nelle prove liberatorie degli artt. 2047, 2048, 2050 e 2054 c.c.), ma alle modalità di causazione del danno, si deve ritenere che la rilevanza del fortuito attiene al profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all’elemento esterno, anzichè alla cosa che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi.

Ma vi è di più: nel caso in esame, si era raggiunta addirittura la prova positiva della grave negligenza dei convenuti e quindi la colpa ex art. 2043 c.c. in quanto:

  1. a) non si curavano del fatto che il primo gradino della scala era poco visibile (essendo ricoperto nella parte superiore dalla medesima pavimentazione rosa della zona antistante la sala e di misura differente dagli altri);
  2. b) non tenevano in debito conto la potenzialità lesiva costituita dalla differente altezza del primo gradino della scala;
  3. c) accendevano le luci solo all’entrata dei partecipanti all’evento organizzato dal Comune nei locali parrocchiali;
  4. d) non accendevano le luci a disposizione (quattro plafoniere a muro) e funzionanti al momento dell’uscita dei partecipanti all’evento organizzato dal Comune nei locali parrocchiali;
  5. e) non si peritavano di approntare una via d’uscita alternativa alla scala in questione.

Insomma sono tali e tante le prove di cattiva gestione da far concludere che, nel caso di specie, non solo controparte non forniva la prova del caso fortuito (il che sarebbe pure ampiamente sufficiente sotto il profilo dell’onus probandi di pertinenza dell’attore), ma incorreva addirittura in un caso di responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. essendo emersa la prova inconfutabile della gravissima colpa dei convenuti concretatasi nella totale incuria con cui ha custodito la scala, unica via d’uscita dalla sala, determinato la caduta dell’attrice. La causa si concludeva con la condanna del Comune a risarcire integralmente il danno patito dall’attrice sulla base del seguente assunto: “era dunque il Comune, comodatario e organizzatore dell’evento che doveva porre in essere ogni accorgimento per evitare che il gradino potesse costituire un’insidia, a partire dal mantenimento delle plafoniere, accese durante tutta la proiezione e fino a che l’ultima persona non fosse uscita dalla sala. È il Comune dunque, titolare passivo del rapporto obbligatorio dedotto in giudizio ciò in applicazione dell’art. 2051 c.c. ritenendo questo giudice pienamente condivisibili le argomentazioni esposte – con i richiami giurisprudenziali – in memoria conclusionale di replica attorea cui si rimanda estensivamente”.

Avv. Francesco Carraro

(Foro di Padova)

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1 commento

  1. Io sono caduta da una scalinata in un ristorante che aveva le luci spente nel reparto toilette ciò è successo perché il buio mi ha fatto confondere porta e ho aperto una porta che portava in cantina.Molto pericolosa oltretutto perché la scalinata è priva di pianerottolo
    .Ho avuto 2terribili notte alla testa e doppia frattura al polso sinistro.I proprietari sono stati avvertiti mi hanno visto ma sono andati via senza chiamare ambulanza

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