Riconosciuto l’errore medico, viene liquidato solo alla moglie della vittima il danno da perdita parentale, escludendo i due figli sebbene conviventi. I Giudici di appello non hanno applicato i criteri indicati dalla giurisprudenza ai fini della valutazione del danno da perdita parentale (Cassazione civile, sez. III, 21/10/2024, n.27142).
I fatti
La vittima, dal 17 maggio 2006 al primo settembre 2007, si sottopose a quattro interventi chirurgici presso l’Ospedale Mauriziano di Torino, per una grave patologia del colon: a circa 10 mesi dal quarto intervento, in data 9 luglio 2008, decedeva all’età di 59 anni per un infarto al miocardio.
La moglie e i 2 figli chiamano in causa la struttura sanitaria sostenendo che la morte del loro congiunto fosse avvenuta per colpa dei sanitari che, dapprima, avrebbero effettuato una diagnosi errata e, in seguito, avrebbero eseguito con negligenza gli interventi chirurgici, in particolare omettendo di applicare uno stent alle pareti intestinali durante il secondo intervento, che avrebbe impedito le complicazioni cardiache rivelatesi causa del decesso, avvenuto per arresto circolatorio dopo le dimissioni dall’ultimo intervento, a distanza di mesi.
La vicenda giuridica
Il Tribunale di Torino conclude che non era provato che vi fosse un nesso di causa tra la condotta dei sanitari, pur emersa come erronea sotto vari aspetti (per mancato posizionamento di uno stent nel secondo intervento) e il decesso, intervenuto per infarto al miocardio dopo alcuni mesi, e che piuttosto, la condotta dei medici aveva provocato soltanto una invalidità temporanea, che veniva riconosciuta agli attori iure hereditatis.
La Corte di Appello di Torino, invece, sulla base della medesima CTU di primo grado, riteneva provato il nesso di causa tra i plurimi errori commessi nell’intervento chirurgico e la morte del paziente. Tuttavia, i giudici di secondo grado negarono il risarcimento del danno da perdita parentale ai figli conviventi paziente, riconosciuto solo a favore della moglie convivente, considerando che, pur avendo essi allegato di essere congiunti conviventi, non avrebbero tuttavia dimostrato la conseguenza dannosa subita sotto il profilo dinamico-relazionale.
I figli della vittima impugnano la decisione, appunto, in relazione al mancato riconoscimento e valutazione del danno da perdita parentale, riconosciuto solo alla madre convivente e non ai figli altrettanto conviventi. La sentenza è altresì impugnata con un motivo di ricorso incidentale da parte della Azienda Ospedaliera Ordine Mauriziano in relazione alla valutazione del nesso causale tra condotta ed evento (ma la censura viene rigettata),
La Corte di Cassazione accoglie solo le censure dei due figli esclusi dal risarcimento.
L’intervento della Cassazione
I Giudici di appello non hanno applicato i criteri indicati dalla giurisprudenza ai fini della valutazione del danno da perdita parentale.
Il rigetto della domanda di riconoscimento del danno morale iure proprio si fonda sull’assunto che i figli del deceduto “erano in un’età pienamente adulta relativamente alla quale non possono ritenersi presumibili né la perdurante dipendenza economica né la convivenza con i genitori” e che nulla sia stato specificato in sede di allegazione circa la natura e intensità della relazione con il padre, e ciò a differenza della moglie convivente che lo ha assistito in tutto il percorso ospedaliero.
Ebbene, in tema di risarcimento e valutazione del danno da perdita parentale, sussiste una presunzione iuris tantum di esistenza del pregiudizio configurabile per i membri della famiglia nucleare “successiva” (coniuge e figli) che si estende anche ai membri della famiglia “originaria” (genitori e fratelli), senza che assuma rilievo il fatto che la vittima ed il superstite non convivessero o che fossero distanti.
Questa presunzione – che è da ritenersi pacifica – impone al terzo danneggiante l’onere di dimostrare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, con conseguente insussistenza in concreto dell’aspetto interiore del danno risarcibile (c.d. sofferenza morale) derivante dalla perdita, ma non riguarda, invece, l’aspetto esteriore (c.d. danno dinamico-relazionale), sulla cui liquidazione incide la dimostrazione, da parte del danneggiato, dell’effettività, della consistenza e dell’intensità della relazione affettiva (desunta dalla coabitazione o da altre allegazioni fornite di prova).
La liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale
Il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul “sistema a punti”, che preveda, oltre all’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, indefettibilmente, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella.
Il danno morale subito dai figli
La sentenza è certamente errata sotto questo profilo perché il danno morale subito dai figli non è stato messo in discussione dalla convenuta. Riguardo la componente dinamico – relazionale, la Corte di appello non ha dimostrato di avere esaminati adeguatamente i fatti allegati dai congiunti della vittima, da cui è presuntivamente desumibile l’intensità della relazione dei figli con il padre all’interno della famiglia nucleare, in virtù della stretta relazione parentale tra i figli, giovani adulti con il medesimo ancora conviventi, e il padre, prematuramente scomparso.
È contraddittoria, quindi, la motivazione d’appello che, confondendo l’an debeatur con il quantum debeatur, assume che lo sforzo di allegazione di parte attrice è stato del tutto insufficiente e fondato su allegazioni generiche, solo per il fatto che non sono presumibili né la perdurante dipendenza economica (circostanza del tutto estranea al danno da perdita del rapporto parentale), né la convivenza.
Lo stato di filiazione avrebbe dovuto essere preso in considerazione ai fini della configurazione di un danno parentale. Mentre sul piano del quantum del risarcimento, la Corte di merito avrebbe avuto ampia discrezionalità nel decidere, tenendo conto dei fatti allegati in ordine alla natura e intensità della relazione con il padre.
In conclusione, la Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia alla Corte d’Appello di Torino in diversa composizione.
Avv. Emanuela Foligno