Si parla spesso impropriamente di danno riflesso, ossia di un danno subito per una lesione inferta non a sé stessi, ma ad altri. In realtà, il danno subito dai congiunti della vittima di un incidente è diretto, non riflesso
La vicenda
Genitori e fratelli di un ragazzo vittima di incidente stradale, avevano agito in giudizio, insieme a quest’ultimo, al fine di ottenere il risarcimento di tutti i danni patiti a seguito dell’incidente.
Il giovane al momento del sinistro si trovava quale terzo trasportato in sella al motociclo investito.
Senonché, all’esito del giudizio di primo grado, l’adito tribunale attribuiva la responsabilità dell’incidente nella misura del 70% al conducente del veicolo antagonista, ed il 30% al conducente del motorino, mentre il danneggiato, veniva ritenuto responsabile del danno a se stesso procurato nella misura del 10%.
Il giudice di secondo grado rigettava l’appello da quest’ultimo proposto e accoglieva quello incidentale della compagnia assicurativa del veicolo antagonista relativamente alla prova del danno (riflesso) lamentato dai familiari della vittima.
La corte territoriale aveva negato il risarcimento ai congiunti del terzo trasportato, rimasto gravemente ferito durante l’incidente, poiché aveva ritenuto non provato il danno da costoro invocato, e non presumibile neanche in base al mero rapporto di parentela.
Il giudizio della corte di merito
Secondo la corte di merito un danno dei congiunti, come conseguenza delle lesioni inferte al parente, sarebbe ipotizzabile solo se consistente in “un totale sconvolgimento delle abitudini di vita del nucleo familiare su cui si sono riverberate quali conseguenze gli effetti dell’evento traumatico subito dal familiare”.
Ciò aveva portato la corte di merito a concludere che la prova di un tale sconvolgimento delle abitudini di vita non fosse stata fornita, e neppure potesse desumersi dal mero rapporto di parentela; e ciò in applicazione del principio di diritto più volte enunciato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui “il danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale patita dal prossimo congiunto di persona lesa in modo non lieve dall’altrui illecito, può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva ed in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della condotta” Cass. 11212/2019; Cass. 2788/2019; Cass. 17058/2017).
Ma in realtà, ad avviso della Suprema Corte, la sentenza della corte d’appello era errata poiché basata su una premessa non corretta: come anticipato essa presupponeva che il danno risarcibile ai congiunti per le lesioni patite dal parente, vittima primaria dell’illecito, fosse solo quello consistente nel “totale sconvolgimento delle abitudini di vita”, “limitazione che non ha in realtà – hanno affermato gli Ermellini – alcuna ragion d’essere”.
Il danno sofferto dai familiari della vittima di incidente
Dalle lesioni inferte a taluno possono derivare, in astratto, per i congiunti sia una sofferenza d’animo (danno morale) che non produce necessariamente uno sconvolgimento delle abitudini di vita, sia un danno biologico (una malattia), anche essa senza rilevanza alcuna sulle abitudini di vita. Ma nel caso in esame, il danno dei congiunti era stato invocato iure proprio.
Il Supremo Collegio, a tal proposito, ha osservato che “si parla spesso impropriamente di danno riflesso, ossia di un danno subito per una lesione inferta non a sé stessi, ma ad altri. In realtà, il danno subito dai congiunti è diretto, non riflesso, ossia è la diretta conseguenza della lesione inferta al parente prossimo, la quale rileva dunque come fatto plurioffensivo, che ha vittime diverse, ma egualmente dirette. Ed anche impropriamente allora, se non per mera esigenza descrittiva, si parla di vittime secondarie.
Con la conseguenza che la lesione della persona di taluno può provocare nei congiunti sia una sofferenza d’animo sia una perdita vera e propria di salute, come una incidenza sulle abitudini di vita. Non v’è motivo di ritenere questi pregiudizi soggetti ad una prova più rigorosa degli altri, e dunque insuscettibili di essere dimostrati per presunzioni”.
E tra le presunzioni assume ovviamente rilievo il rapporto di stretta parentela (nella fattispecie, genitori e fratelli) tra la vittima in primis, per cosi dire, ed i suoi congiunti.
Il rapporto di stretta parentela esistente fa presumere, secondo un criterio di normalità sociale (ossia ciò che solitamente accade) che genitori e fratelli soffrano per le gravissime permanenti lesioni riportate dal congiunto prossimo.
Non v’è bisogno, perciò, come aveva sostenuto la corte di merito, che queste sofferenze si traducano in uno “sconvolgimento delle abitudini di vita”, in quanto si tratta di conseguenze estranee al danno morale, che è piuttosto la soggettiva perturbazione dello stato d’animo, il patema, la sofferenza interiore della vittima, a prescindere dalla circostanza che influisca o meno sulle abitudini di vita”.
La Corte (Cassazione, Terza Sezione Civile, ordinanza n. 7748/2020) ha pertanto, accolto il motivo di ricorso e cassato la decisione impugnata, con rinvio alla Corte d’Appello di Roma per un nuovo esame.
Avv. Sabrina Caporale
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