Una parola è una parola solo nell’esatta misura in cui qualcuno vi crede*, dice lo psicoanalista Jacques Lacan. Questa parola sembra non trovare posto, volutamente, nel momento in cui si ascoltano bambini vittime di abusi sessuali collettivi. L’Altro della giustizia diffonde luoghi, città, il nome degli imputati, ma nulla della parola dei bambini, perlomeno non prima che questa parola sia squalificata, svalutata e disconosciuta. Negli ultimi anni vi è stata una vorticosa crescita di segnalazioni di abusi sessuali sui bambini, sia perché la legge è in vigore da solo un ventennio, sia perché fino ad allora l’opinione pubblica non era stata sensibilizzata a denunciare tali reati, ciò nonostante, l’abuso sessuale su minore è un fenomeno difficile da evidenziare in quanto raramente emergono le prove oggettive dell’avvenuto abuso ed i bambini risultano i soli testimoni dei presunti fatti. Quanto affermato emerge in maniera ancor più viva da quando si tratta di casi di abusi sessuali collettivi di tipo ritualistico, che coinvolgono più bambini e più abusanti.

Riportiamo l’esempio di un caso italiano, attraverso lo studio degli atti. I piccoli narrano quanto presumibilmente succedeva a loro dire, all’asilo, sempre con grande difficoltà, le definiscono “cose faticose”, non le vogliono raccontare. I genitori sono gli unici testimoni di un cambiamento di comportamento dei figli, ad esempio riferisce una madre “la piccola iniziava ad interessarsi in modo morboso agli organi sessuali dei nostri cani che insistentemente, tentava ripetutamente di toccare e baciare.  Ebbi modo di vedere mia figlia prendere la testa del cane tra le mani e portarla al basso ventre quasi a voler mimare un atto sessuale”. Altro tratto osservato dai genitori è una sorta di regressione accompagnata da interessi non consoni a dei bambini: enuresi, encopresi, paura di rimanere da soli, comportamenti violenti, apparentemente senza senso, l’affacciarsi di un interesse morboso per la sessualità oltre che di una sorta di blasfemia. Uno dei piccoli, osservando un crocifisso appeso a casa, inizia a gridare all’indirizzo del Cristo “barbone bastardo!”, sembrerebbe che anche altri piccoli si mostrano diffidenti verso la figura di Cristo e spesso nominano il diavolo, dicendo di averci giocato, di averlo incontrato. Ma cosa raccontano o fantasticano precisamente questi bambini?

La svolta avviene quando cinque bambini, oltre a presentare una serie di sintomi, iniziano a parlare. Quanto riportato di seguito sono le testimonianze di bambini o genitori che raccontano quanto presumibilmente avveniva fuori dalla scuola, si ricorda, però, che l’iter giudiziario si è concluso ribadendo che il fatto non sussiste, pertanto, da psicologa, non è di mio interesse analizzare la realtà dei fatti, ma solo riportare “le parole”. Una madre descrive “la bimba iniziò a toccarsi ancheggiando e chiedendo ‘sono sexy? Sono sexy?’”, preciso che si toccava come si toccherebbe una donna, poi si è sdraiata per terra facendoci vedere il gioco del dito a punta, in cui doveva inserirsi il dito di una mano in vagina, poi mi ha detto di prenderle un asciugamano perché doveva lavarsi la patatina altrimenti, così come le hanno  insegnato, si sarebbe visto che era arrossata (…) A un tratto mia figlia mi chiede se avevo la macchina fotografica perché la signora tatuata le faceva sempre le foto”.  Aggiunge un’altra piccola “noi ai giardinetti della scuola giochiamo così, anche noi tocchiamo le patatine come ci ha insegnato la signora.  Tocchiamo anche quella della signora con i disegni sulle braccia perché altrimenti le fa “bua” la patata e lei piange. Se noi la tocchiamo le passa la bua e non piange più”. Un piccolo parla con la madre raccontandole che a scuola facevano i “giochi sporchi” in cui sembrerebbe che i cattivi mettevano lo zucchero nel culetto e sul pisellino oppure il sale, lo riconosce perché pizzicava. Poi fa qualche momento di silenzio e dice “mi hanno spaccato il culo” “e come hanno fatto??” “Con le mani”. Un altro bimbo aggiunge il gioco in cui, a suo dire, lui e altri piccoli rincorrevano uno scoiattolo, o meglio un uomo completamente nudo e con una maschera da scoiattolo mentre i piccoli ne indossavano una da lupo.  Sembrerebbe che lo scopo del gioco era, sempre a dire del minore, quello di “giocare” con le parti intime dello “scoiattolo”.

Quanto raccontato dai bambini sembrerebbe essere parte di un qualcosa di ben organizzato, strutturato ed agito, gli adulti in questione che avevano ben in mente cosa fare, come farlo e come confondere. I bambini, anche questa volta così come in tutti i casi di abusi sessuali rituali presenti in letteratura, hanno riferito racconti estremamente bizzarri: diavoli, persone incappucciate, scoiattoli, lupi giganti e tigri, personaggi che sembrerebbero essere da loro fantasticati. Ed anche in questo caso i fatti non sussistono, ma solo la parola dei bambini e qualche indizio non sufficiente a supportarla (come ad esempio l’irritazione delle parti genitali del 70% dei bambini frequentanti l’asilo, l’anite rossa, la candida orale, la presenza di benzodiazepine nei capelli di due bambine). Tuttavia, dalla mia posizione soggettiva, quello che più mi ha colpita è la parola, l’appello di questi bambini, che anche se appartenente alla sfera della fantasia, è caduto nel vuoto. Con i loro racconti, i piccoli, cosa desideravano raccontare all’Altro? L’iter giudiziario appare seguire la linea postfreudiana, evolutiva e cronologica, in cui il bambino è valutato per le sue “capacità” mnemoniche, di stare in giudizio e di fornire indizi e prove. Ben diversa è la concezione lacaniana della parola, in cui non è, la parola, luogo di rivelazione di una verità già costituita, già data, nel suo discorso, ma la significazione del discorso dell’individuo si costituisce in una temporalità sempre retroattiva. Insomma, l’Altro che riconosca e renda riconoscibile al soggetto stesso la parola è fondamentale, peccato che per questi piccoli non ci sia stato.

 

Dr.ssa  Rosaria Ferrara

(psicologa forense)

*J Lacan, Il Seminario, Libro I, p 281

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