Per la Cassazione è sanzionabile per abuso del diritto la condotta di chi si rivolge alla Suprema Corte per mettere in atto azioni meramente dilatorie e defatigatorie
Può costituire abuso del diritto la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata. Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, terza sezione, con l’ordinanza n.15209/2018.
Stesso discorso vale per le impugnazioni prive di autosufficienza o contenenti una mera richiesta di rivalutazione nel merito. La condotta, quindi, può dar luogo a una condanna per lite temeraria, sanzionabile ai sensi dell’art. dell’art. 96 del codice di procedura civile.
Gli Ermellini, in particolare, hanno chiarito che un ricorso caratterizzato in tal senso deve ritenersi incompatibile con un quadro ordinamentale che presenta una duplice esigenza: garantire universalmente l’accesso alla giustizia e tener conto del principio costituzionalizzato della ragionevole durata del processo.
Nel nostro ordinamento, ricordano i Giudici di Piazza Cavour, sono previsti “strumenti dissuasivi rispetto ad azioni meramente dilatorie e defatigatorie”.
E’ il caso dell’ipotesi di condanna per lite temeraria.
La sentenza del Palazzaccio, tuttavia, accentua la funzione punitiva di tale istituto richiamando la recente sentenza n. 16601/2017 delle Sezioni Unite. Tale pronuncia fa riferimento proprio alla condanna per lite temeraria per dimostrare che “non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano” l’istituto dei risarcimenti punitivi.
A tal proposito la Cassazione precisa che per la condanna non è richiesto il previo accertamento “del dolo o della colpa grave”. E’ sufficiente che sia stata posta in essere “una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di abuso del processo”.
Ciò premesso, la Corte evidenzia che “il primo filtro valutativo – rispetto alle azioni ed ai rimedi da promuovere – è affidato alla prudenza del ceto forense”. Questa va coniugata con il principio di responsabilità delle parti.
Il primo baluardo a difesa del buon andamento della Giustizia, quindi, è proprio l’avvocato. Per il professionista sembra delinearsi una funione pubblicistica, che inevitabilmente va ad incidere nel rapporto con il cliente.
Il legale, infatti, dovrebbe conciliare gli interessi dell’assistito con quelli del sistema giudiziario, anche a costo di ridimensionare le iniziative giudiziarie del cliente. Un ruolo da cui deriva, dunque, anche il rischio di una responsabilità professionale nel caso in cui il cliente sia condannato ex art. 96 c.p.c. Un’ipotesi, quest’ultima, in cui il cliente potrebbe facilmente riversare sull’avvocato la responsabilità per non aver adempiuto diligentemente alla propria funzione di “filtro valutativo”.
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