Il ricorrente, che deduceva di essere stato sottoposto ad un eccessivo carico di lavoro, non poteva limitarsi a fare riferimento alla malattia professionale, ma avrebbe dovuto allegare la nocività dell’ambiente di lavoro ed indicare le specifiche violazioni commesse dal datore di lavoro (Tribunale di Chieti, Sez. Lavoro, Sentenza n. 305/2021 del 14/10/2021 RG n. 467/2020)

Con ricorso depositato in data 26.05.2020 il ricorrente deduce: di essere stato assunto alle dipendenze della Provincia il 10.04.1989 con qualifica di cantoniere; di aver acquisito la qualifica di agente conduttore di mezzi polivalenti dall’1.1.1994 e di agente coordinatore -istruttore di Polizia Provinciale dall’1.9.2000; di essere stato inizialmente assegnato alla zona 1 e dal 2010 anche alla zona 5, con una estensione chilometrica doppia rispetto a quella assegnata ad altri agenti coordinatori; di aver svolto a partire dal 2001, in aggiunta alle mansioni proprie del cantoniere e dell’agente conduttore, anche quelle di agente coordinatore e di Istruttore di Polizia Provinciale, effettuando operazioni di vigilanza delle condizioni di integrità del manto stradale, dirigendo, coordinando e organizzando le attività di manutenzione delle strade, di sfalcio dell’erba e di sgombro neve dei dipendenti assegnati alla sua squadra; di essere stato sottoposto ad un eccessivo carico di lavoro a causa della cronica carenza di personale; di aver dovuto garantire la reperibilità h24 anche nei giorni festivi; di aver svolto numerose ore di lavoro straordinario; di essere stato più volte chiamato a rientrare dalle ferie; di aver svolto le attività di 3 distinti profili professionali (cantoniere, agente conduttore e agente coordinatore); di non aver ricevuto un vestiario adeguato; di non aver ricevuto una retribuzione proporzionata all’attività lavorativa svolta, corrispondente a tre diversi profili professionali e con affidamento di due zone di estensione doppia rispetto a quella assegnata ad altri colleghi; di non aver percepito l’indennità di rischio prevista dal contratto collettivo decentrato del 14.05.2013; di aver subito danni alla salute a causa dell’eccessivo carico di lavoro.

La Provincia di Chieti, costituitasi in giudizio, eccepiva la nullità del ricorso e la prescrizione di tutti i diritti maturati antecedentemente al 2015.

Nel merito il ricorso è infondato e viene rigettato per le ragioni di seguito esposte.

Il ricorrente ha dedotto di avere svolto sin dal 2001 mansioni proprie di 3 profili professionali (cantoniere, agente conduttore e istruttore di polizia provinciale) e di essere stato assegnatario di due zone, con una estensione complessiva doppia rispetto a quella assegnata ad altri colleghi e che tale circostanza legittimerebbe una maggiore retribuzione.

Ciò non viene condiviso in quanto le mansioni svolte rientrano comunque nel proprio profilo di inquadramento e comunque strettamente connesse.

Non sussiste un principio generale in base al quale se vengono svolte mansioni corrispondenti a più profili professionali si ha diritto a percepire la retribuzione prevista per ciascuno dei suddetti profili.

Lo svolgimento di mansioni corrispondenti ad una categoria inferiore può eventualmente rilevare sotto il profilo risarcitorio, laddove esso abbia comportato una dequalificazione professionale, non ricorrente nella specie in cui il ricorrente ha sempre svolto anche le mansioni proprie della categoria attribuita.

Analoghe considerazioni valgono con riferimento allo svolgimento dell’attività in due diverse zone, di estensione più ampia rispetto a quella affidata ad altri colleghi, posto che la retribuzione non è certo legata all’estensione della zona in cui il dipendente è chiamato a svolgere la sua attività lavorativa ma, piuttosto, al tipo di attività che, ove in ipotesi corrispondente ad un profilo superiore, può dare diritto ad una maggiore retribuzione.

Secondo il condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, “il lavoratore il quale, nel rispetto della professionalità e della qualificazione contrattuale conseguite, sia, nel corso del rapporto, adibito dal datore di lavoro allo svolgimento di mansioni ulteriori rispetto a quelle originariamente assegnategli non può pretendere, in mancanza di disposizioni legislative o contrattuali in tal senso, la corresponsione di un doppio salario, per la duplicità di mansioni conglobate in un’unica prestazione lavorativa, configurandosi eventualmente, nella situazione anzidetta, soltanto un problema di adeguatezza e proporzionalità della retribuzione in relazione alla qualità e quantità della prestazione lavorativa complessivamente svolta”.

Affinchè il prestatore possa pretendere il pagamento della prestazione ritenuta aggiuntiva non è sufficiente la mera allegazione dello svolgimento di compiti ulteriori e di un criterio di calcolo per determinare il compenso di tale attività, ma è necessario fornire elementi tali che consentano di verificare la congruità del complessivo trattamento economico ricevuto rispetto al parametro di cui all’art. 36 Cost.

La Corte Costituzionale ha “reiteratamente chiarito che il giudizio sulla conformità di un trattamento all’art. 36 Cost. non può essere svolto per singoli istituti, né – può aggiungersi – giorno per giorno, ma occorre valutare l’insieme delle voci che compongono il trattamento complessivo del lavoratore in un arco temporale di una qualche significativa ampiezza”.

Il ricorrente non ha fatto riferimento alcuno alla retribuzione effettivamente percepita e alle ragioni per le quali tale retribuzione dovrebbe considerarsi non adeguata all’attività lavorativa svolta, avendo unicamente fatto riferimento allo svolgimento di attività riconducibili a più profili professionali e all’aggravio di lavoro che ne sarebbe derivato, elementi questi non idonei a fondare il diritto del ricorrente a percepire una maggiore retribuzione.

La giurisprudenza di legittimità ha, peraltro, affermato che “nel pubblico impiego privatizzato, il lavoratore può essere adibito a mansioni accessorie inferiori rispetto a quelle di assegnazione, a condizione che sia garantito al lavoratore medesimo lo svolgimento, in misura prevalente e assorbente, delle mansioni proprie della categoria di appartenenza, che le mansioni accessorie non siano completamente estranee alla sua professionalità e che ricorra una obiettiva esigenza, organizzativa o di sicurezza, del datore di lavoro pubblico, restando ininfluente che la P.A., nell’esercizio della discrezionalità amministrativa, non abbia provveduto alla integrale copertura degli organici per il profilo inferiore, venendo in rilievo il dovere del lavoratore di leale collaborazione nella tutela dell’interesse pubblico sotteso all’esercizio della sua attività”.

Per tali ragioni, la relativa domanda viene rigettata.

Parimenti non viene accolta la domanda proposta in via subordinata di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c., in quanto il ricorrente ha svolto mansioni proprie del profilo di inquadramento per le quali è stato sempre retribuito, sicché non è prospettabile alcun arricchimento senza causa in capo alla Provincia.

Quanto alla domanda di condanna al pagamento dell’indennità di rischio, essa è infondata in quanto l’art. 13 del Contratto collettivo integrativo del 14.05.2013 prevede che essa sia corrisposta al solo personale di categoria A e B. Il ricorrente dal 2001 è inquadrato nella categoria C per cui non ha diritto al pagamento dell’indennità di rischio.

Ed ancora, infondata è la domanda di risarcimento del danno alla salute in quanto il ricorrente si è limitato a fare riferimento al riconoscimento da parte dell’INAIL della malattia professionale e all’esistenza di condizioni di lavoro stressanti e gravose, ma nulla ha dedotto in ordine ai profili di inadempimento contrattuale ascrivibili al datore di lavoro.

La responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. è di carattere contrattuale, atteso che il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge, ai sensi dell’art. 1374 c.c. dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale.

Ne consegue che il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini dell’art. 1218 c.c. circa l’inadempimento delle obbligazioni, da ciò discendendo che il lavoratore il quale agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro deve allegare e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, l’esistenza del danno ed il nesso causale tra quest’ultimo e la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile e, cioè, di aver adempiuto interamente all’obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno.

Il ricorrente non poteva limitarsi a fare riferimento alla malattia professionale, ma avrebbe dovuto quantomeno allegare la nocività dell’ambiente di lavoro ed indicare nel dettaglio le specifiche violazioni commesse dal datore di lavoro, non essendo sufficiente il generico riferimento a condizioni di lavoro stressanti e gravose.

Il ricorso viene integralmente rigettato e le spese di lite, secondo la regola della soccombenza, vengono interamente poste a carico del ricorrente per l’importo di euro 6.378,00.

Avv. Emanuela Foligno

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