Uno studio inglese dimostrerebbe che, nei pazienti con apnea ostruttiva del sonno, una somministrazione supplementare di ossigeno durante la notte è associata a una pressione sanguigna mattutina più bassa.
Chiarire il ruolo dell’ipossia intermittente negli aumenti di pressione diurni dei pazienti con apnea ostruttiva del sonno (Osa). Questo l’obiettivo di uno studio realizzato dai ricercatori dell’Oxford Center for Respiratory Medicine al Churchill Hospital nel Regno Unito.
Il trial ha coinvolto 25 persone con Osa, di grado da moderato a severo. I soggetti erano stati trattati per almeno un anno con la ventilazione meccanica a pressione positiva continua (Cpap).
Durante la prima visita i pazienti sono stati randomizzati per ricevere una somministrazione supplementare di ossigeno o aria durante la notte a un livello di 5l/min attraverso cannule nasali o maschera facciale. Tale trattamento ha sostituito quello con Cpap per due settimane.
La somministrazione supplementare ha avuto luogo nuovamente dopo un periodo di due settimane di trattamento dei pazienti con la loro Cpap. Il tutto sempre in sostituzione della loro terapia per un periodo di 14 giorni.
La ricerca ha evidenziato che l’Osa è associata a una pressione sanguigna elevata durante il giorno.
La ventilazione meccanica a pressione positiva continua ha dimostrato di migliorare questo parametro, soprattutto nei pazienti con ipertensione resistente.
Dal lavoro, infatti, è emerso che, rispetto all’aria, l’ossigeno supplementare ha fermato l’aumento della pressione, con un decremento relativo di 6.6 mmHg della sistolica e 4.6mmHg della diastolica. La somministrazione supplementare di ossigeno non ha invece avuto effetti significativi a casa o in ufficio sulla frequenza cardiaca mattutina.
“L’ipossia intermittente sembra essere la causa dominante degli aumenti di pressione nell’Osa”, spiegano i ricercatori. Non sarebbero ancora chiari, invece, gli esatti meccanismi che attenuano la pressione sanguigna all’aumento dell’ossigeno durante la carenza di Cpap.
“Questo era uno studio meccanicistico fisiologico”, chiariscono ancora gli autori. Saranno dunque necessarie ulteriori ricerche “per capire se la somministrazione supplementare di ossigeno si possa tradurre in un beneficio clinico”.
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