Per la Cassazione il pensiero religioso “negativo” di atei e agnostici va tutelato al pari e nella stessa misura del credo religioso positivo

Atei e agnostici hanno “diritto a professare un credo che si traduce nel rifiuto di una qualsiasi confessione religiosa”. Lo ha affermato la Suprema Corte di Cassazione pronunciandosi su un contenzioso tra Unione atei e agnostici razionalisti (Uaar) e Comune di Verona.

Nello specifico l’Associazione aveva chiesto all’Amministrazione di affiggere 10 manifesti in cui la D della parola “Dio” appariva barrata con una crocetta ed era accompagnata dalla didascalia, a caratteri più piccoli: “10 milioni di italiani vivono bene senza D. E quando sono discriminati c’è l’Uaar al loro fianco”.

La Giunta comunale aveva negato l’affissione sostenendo che il contenuto dei manifesti fosse “potenzialmente lesivo” nei confronti di qualsiasi religione. L’Uaar si era quindi rivolta all’autorità giudiziaria, affinché dichiarasse il carattere discriminatorio del rifiuto del Comune.

In sede di merito sia il tribunale che il Giudice d’appello avevano rigettato le istanze dell’associazione. Ma la prima sezione civile della Cassazione ha ritenuto di accogliere il ricorso rinviando il caso alla Corte territoriale che dovrà riesaminare la vicenda.

La sentenza riconosce il cosiddetto pensiero religioso “negativo” come “espressione della libertà di coscienza sancita dall’articolo 19 della Costituzione” ed è quindi “tutelato a livello nazionale e internazionale, al pari e nella stessa misura del credo religioso positivo, che si sostanzia invece nell’adesione ad una determinata confessione religiosa”.

Per la Suprema Corte, dal “riconoscimento del diritto di libertà di coscienza anche agli atei o agnostici, discende il diritto di questi ultimi di farne propaganda nelle forme che ritengano più opportune, attesa la previsione aperta e generale dell’articolo 19 della Costituzione”.

Tale diritto “non deve tradursi nel vilipendio della fede da altrui professata, secondo un accertamento che il giudice di merito è tenuto ad effettuare con rigorosa valutazione delle modalità con le quali si esplica la propaganda o la diffusione, denegandole solo quando si traducano in un’aggressione o in una denigrazione della diversa fede o in una denigrazione della diversa fede da altri professata”.

Gli Ermellini hanno inoltre richiamato il principio di “parità di trattamento”, contenuto nella direttiva europea sulle pari opportunità (78/2000) e nel Testo unico sull’immigrazione (dlgs 286/1998), in base al quale deve essere assicurata “una forma di uguaglianza tra tutte le forme di religiosità, in esse compreso il credo ateo o agnostico”.

La violazione di tale principio “integra la discriminazione vietata, che si verifica quando, nella comparazione tra due o più soggetti, non necessariamente nello stesso contesto temporale, uno di essi è stato, è, o sarebbe avvantaggiato rispetto all’altro, sia per effetto di una condotta posta in essere direttamente dall’autorità o da privati, sia in conseguenza di un comportamento, in apparenza neutro, ma che abbia comunque una ricaduta negativa per i seguaci della religione discriminata”.

La redazione giuridica

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