Entrambe le assicurazioni rifiutano l’indennizzo della polizza vita sostenendo che la vittima provocava volontariamente la propria morte. Tutti i gradi di giudizio rigettano il comportamento delle assicurazioni condannandole all’indennizzo.
La questione giuridica al vaglio riguarda due differenti contratti di assicurazione sulla vita stipulati dalla vittima e la relativa applicazione (Corte di Cassazione, III Sezione Civile, ordinanza 06/03/25, n. 5987).
La vicenda
La vittima, nell’anno 2009, stipulava due contratti di assicurazione sulla propria vita per il caso di morte: uno con la società Groupama, l’altro con la società Generali. Indicò quali beneficiari la moglie e i due figli C.A. e C.E. Anni dopo, precisamente il 29/09/11, perdeva la vita in conseguenza di un sinistro stradale: il veicolo da lui condotto, senza apparente coinvolgimento di altri mezzi, usciva di strada, abbattendo il guardrail e precipitava nel dirupo sottostante, causando il decesso della vittima.
Nel 2013 la moglie e i due figli citavano, in separati giudizi, le società assicuratrici Generali e Groupama, chiedendone la condanna al pagamento dell’indennizzo contrattualmente previsto. Ambedue le società sostengono in giudizio che la vittima provocava volontariamente la propria morte e che i contratti escludevano l’indennizzabilità della morte causata da suicidio.
Argomentazioni delle assicurazioni
Tale presunzione dell’assicurazione derivava dal fatto che la vittima aveva stipulato, in soli due mesi, tre contratti di assicurazione sulla vita; che era affetto da tumore e che le modalità del sinistro erano incompatibili con il caso fortuito, in quanto risultavano assenti tracce di frenata e di coinvolgimento di altri veicoli, e che si trovava in gravi difficoltà economiche.
Il Tribunale di Ancona, riunite le due cause, accoglie le domande ritenendo che l’onere della prova dell’asserito intento suicidario doveva essere fornito dalle assicurazioni e che tale onere non fosse stato assolto.
La Corte d’Appello di Ancona (sent. 20/05/22, n. 644) rigetta il gravame con motivazioni sovrapponibili a quelle adottate dal Tribunale: ovvero il difetto di una prova sufficiente che la vittima si fosse suicidata.
Il ricorso in Cassazione
Entrambe le compagnie assicurative richiedono il vaglio della Corte di Cassazione.
In sintesi, viene lamentato che l’obbligazione dell’assicuratore sulla vita verso i beneficiari dell’indennizzo è un’obbligazione parziaria e non solidale dal lato attivo e che quindi l’indennizzo era dovuto agli attori in tre parti uguali e non in solido. Viene inoltre contestata un’errata interpretazione delle prove testimoniali e il concreto intento suicidario della vittima.
Le compagnie ricorrenti sostengono che, se l’assicurazione adempisse la sentenza di condanna versando l’intero indennizzo nelle mani di uno qualunque dei tre creditori a sua scelta, sarebbe liberata anche nei confronti degli altri due (art. 1296 c.c.) e non potrebbe essere costretta a un secondo pagamento. Sostengono, inoltre, la mancanza di presupposti per l’indennizzo della polizza vita.
La decisione della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ritiene le censure infondate in quanto è pacifico onere dell’assicuratore provare che la vittima si sia suicidata e non certo onere del beneficiario dell’indennizzo provare che la vittima non si sia suicidata.
Il suicidio è un fatto impeditivo della domanda e, come tale, la prova di esso grava sul debitore. A nulla giova la confutazione delle risultanze della CTU avanzata. La motivazione della sentenza impugnata è ben chiara: “Non v’è prova del suicidio” e tanto basta a soddisfare il requisito di cui all’art. 132, comma secondo, n. 4, c.p.c.
Quanto al contestato rigetto delle istanze istruttorie, stabilire se il relativo giudizio potesse essere diverso alla luce degli elementi raccolti non è questione sindacabile in Cassazione.
Conclusivamente, i ricorsi di Groupama e Generali Assicurazioni vengono integralmente respinti perché inammissibili.
Avv. Emanuela Foligno