Il minore vittima di bullismo che reagisce in maniera aggressiva nei confronti del suo “persecutore” non può essere semplicemente condannato, ma è necessaria una risposta dell’intera comunità sociale e delle istituzioni

Il bullismo è un fenomeno complesso che richiede un coacervo di interventi coordinati che, oltre a contenere il fenomeno, fungano da diaframma invalicabile che si interponga tra l’autore degli atti e le persone offese

La reazione agli atti di bullismo

Nel corso di un litigio a scuola un minore riceveva da un suo coetaneo, un pugno in faccia che gli provocava l’avulsione traumatica dell’incisivo superiore laterale sinistro, la lussazione dell’incisivo centrale ed escoriazioni al labbro.

Il procedimento penale a carico di quest’ultimo terminava con sentenza di non luogo a procedere emessa dal Tribunale per i minorenni di Catanzaro.

Successivamente, i genitori del minore danneggiato convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Catanzaro, rispettivamente, padre e madre del danneggiante, per ottenerne la condanna in solido al risarcimento dei danni subiti quantificati in 18.000,00 euro o nella diversa somma giudizialmente accertata.

Il processo di merito

All’esito del giudizio di primo grado, l’adito tribunale dichiarava il difetto di legittimazione passiva dei genitori del danneggiante e accertava il concorso di colpa del danneggiato nel verificarsi dell’evento dannoso, cosicché condannava il primo al risarcimento in favore di quest’ultimo della somma complessiva di Euro 1.765,50.

La Corte d’Appello riformava la decisione di prime cure, condannando il danneggiante e i suoi genitori in solido al risarcimento di 14.286,43 euro. Per i giudici della Corte territoriale i genitori di quest’ultimo erano responsabili in solido con il figlio dei danni da questi cagionati ai sensi dell’art. 2048 c.c.

Il procedimento dinanzi alla Corte di Cassazione

In primo luogo i giudici della Suprema Corte di Cassazione (Terza Sezione Civile, sentenza n. 22541/2019) hanno chiarito i termini della responsabilità dei genitori per il fatto illecito commesso dai propri figli ai sensi dell’art. 2048 c.c.

Nel caso in esame, la corte territoriale aveva ritenuto che i genitori del minore danneggiante non avessero provato di aver reso il proprio figlio capace di dominare i suoi istinti, di fronteggiare le altrui offese e di rispettare gli altri, sì da andare esenti dalla presunzione di responsabilità di cui all’art. 2048 c.c..

Ebbene, questi ultimi si erano limitati in primo grado ed in appello ad invocare l’esenzione da responsabilità del proprio figlio, “giustificandone il comportamento antigiuridico quale reazione agli atti di bullismo ed ai soprusi di cui la vittima lo aveva reso oggetto, dimostrando essi stessi, in sostanza, di non aver percepito il disvalore della condotta del figlio e la gravità del fatto imputatogli, fornendo indirettamente la prova del difetto di un adeguato insegnamento educativo”.

Ma come la Cassazione insegna: “L’educazione è fatta non solo di parole, ma anche e soprattutto di comportamenti” (Cass. 28/08/2009, n. 18804).

In altri termini, dalla tipologia di fatto illecito, dalle modalità in cui ebbe a verificarsi e dalle giustificazioni difensive dei genitori, la Corte territoriale aveva ritenuto che i genitori non avessero vinto la presunzione di responsabilità su di loro gravante.

Peraltro, è noto che la prova liberatoria richiesta ai genitori dall’art. 2048 c.c., di non aver potuto impedire il fatto illecito commesso dal figlio minore coincide, normalmente, con la dimostrazione, oltre che di aver impartito al minore un’educazione consona alle proprie condizioni sociali e familiari, anche di aver esercitato sul minore una vigilanza adeguata all’età e finalizzata a correggere comportamenti non corretti e, quindi, meritevoli di un’ulteriore o diversa opera educativa.

A tal fine, non è necessario che il genitore provi la costante ininterrotta presenza fisica accanto al figlio, pena la coincidenza dell’obbligo di vigilanza con quello di sorveglianza, ma che per l’educazione impartita, per l’età del figlio e per l’ambiente in cui egli viene lasciato libero di muoversi, risultino correttamente impostati i rapporti del minore con l’ambiente extrafamiliare, “facendo ragionevolmente presumere che tali rapporti non possano costituire fonte di pericoli per sè e per i terzi”. Ne consegue che è del tutto irrilevante chè il fatto illecito si sia svolto lontano da casa, giacchè l’obbligo di vigilanza per i genitori del minore capace non si pone come autonomo rispetto all’obbligo di educazione, ma va correlato a quest’ultimo, nel senso che i genitori devono vigilare che l’educazione impartita sia consona ed idonea al carattere ed alle attitudini del minore e che quest’ultimo ne abbia “tratto profitto”, ponendola in atto, in modo da avviarsi a vivere autonomamente, ma correttamente (Cass. 22/04/2009, n. 9556).

Il Supremo Collegio ha poi accolto il secondo motivo di ricorso.

La corte territoriale aveva “del tutto sbrigativamente negato qualunque rilievo al comportamento ripetutamente provocatorio e offensivo di cui lo stesso danneggiante era stato fatto oggetto da parte della ‘vittima’, limitandosi ad affermare paternalisticamente che non avrebbe dovuto reagire alle provocazioni ricevute”.

La decisione era evidentemente incapace di penetrare il contesto situazionale in cui si erano svolti i fatti. «È regola di esperienza – hanno chiarito gli Ermellini – quella per cui colui che è reiteratamente aggredito reagisce come può per far cessare l’altrui condotta lesiva (Cass. 08/11/2012, n. 19294).

Quando poi l’autore della reazione sia un adolescente, vittima di comportamenti prevaricatori, aggressivi, mortificanti e reiterati nel tempo, occorre, in aggiunta, tener conto che la sua personalità non si è ancora formata in modo saldo e positivo rispetto alla sequela vittimizzante cui è stato supposto; è prevedibile, infatti, che la sua reazione possa risolversi, a seconda dei casi, nell’adozione di comportamenti aggressivi (…)».

La decisione

Dunque, “pur dovendosi condannare l’istinto di vendetta del minore bullizzato, è innegabile che la risposta ordinamentale non può essere solo quella della condanna dell’atto reattivo come comportamento illecito a sè stante, essendo necessario un coacervo di interventi coordinati che, oltre a contenere il fenomeno, fungano da diaframma invalicabile che si interponga tra l’autore degli atti di bullismo e le persone offese, anche onde rendere del tutto ingiustificabile la reazione di queste ultime”.

“In assenza di prove circa come le istituzioni e la scuola, in particolare, fossero intervenute per arginare il fenomeno del bullismo e per sostenere l’odierno ricorrente, quindi mancando anche la prova della ricorrenza di espressioni di condanna pubblica e sociale del comportamento adottato dai cosiddetti bulli, non era legittimo attendersi da parte del danneggiante, adolescente, una reazione razionale, controllata e non emotiva”.

Per queste ragioni la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso e rinviato la controversia alla Corte d’Appello di Catanzaro in diversa composizione, per l’ulteriore corso.

Avv. Sabrina Caporale

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