Non può essere punito per aver dato un pugno in faccia ad un suo coetaneo, il minore vittima di bullismo, se lasciato solo da scuola ed istituzioni

“Non una sola parola era, infatti, stata spesa per chiarire se la scuola si fosse fatta carico di predisporre interventi di contrasto della piaga del bullismo attraverso un programma serio e articolato”. Così i giudici della Terza Sezione Civile (ordinanza n. 22541/2019) hanno cassato con rinvio, la sentenza di condanna al risarcimento danni a carico del minore

La vicenda

Nel corso di un litigio un minore riceveva un pugno in faccia da un suo coetaneo, a seguito del quale riportava “l’avulsione traumatica dell’incisivo superiore laterale di sinistra, la lussazione dell’incisivo centrale ed escoriazioni al labbro”.

Il procedimento penale a carico di quest’ultimo si concludeva con un sentenza di non luogo a procedere pronunciata dal Tribunale per i minorenni di Catanzaro.

Successivamente con atto di citazione, il primo conveniva in giudizio il suo aggressore, nonché i suoi genitori, per ottenerne la condanna in solido al risarcimento dei danni subiti, quantificati in 18.000 euro o, nella diversa somma giudizialmente accertata.

In primo grado, l’adito Tribunale dichiarava il difetto passivo dei genitori, accertava il concorso di colpa del danneggiato nel verificarsi dell’evento dannoso e, per l’effetto, condannava il convenuto al pagamento della somma di 1.765,00 euro in favore del primo.

La Corte d’appello, riformava la decisione di prime cure, condannando l’aggressore in solido con i genitori, ai sensi dell’art. 2048 c.c., al risarcimento di euro 14.286,43 in favore dell’originario attore, e al pagamento integrale delle spese di lite di entrambi i giudizi.

Quanto alla dedotta responsabilità dei genitori del danneggiante, i giudici della Terza Sezione Civile della Cassazione hanno confermato la decisione impugnata.

Dalla tipologia di fatto illecito, dalle modalità in cui ebbe a verificarsi e dalla giustificazioni difensive dei genitori, la corte territoriale, in linea con l’orientamento della Suprema Corte, aveva ritenuto che i genitori non avessero vinto la presunzione di responsabilità su di essi gravante.

Come la Corte insegna – hanno affermato gli Ermellini -: “l’educazione è fatta non solo di parole, ma anche e soprattutto di comportamenti” (Cass. n. 18804/2018).

Ebbene, la prova liberatoria richiesta ai genitori dall’art. 2048 c.c., di non aver potuto impedire il fatto illecito commesso dal figlio minore coincide, normalmente, con la dimostrazione, oltre che di aver impartito al minore un’educazione consona alle proprie condizioni sociali e familiari, anche di aver esercitato sul minore una vigilanza adeguata all’età e finalizzata a correggere comportamenti non corretti e, quindi, meritevoli di un’ulteriore diversa opera educativa.

A tal fine, “non essendo necessario che il genitore provi la costante ininterrotta presenza fisica accanto al figlio, pena la coincidenza dell’obbligo di vigilanza con quello di sorveglianza, ma che per l’educazione impartita, per l’età del figlio e per l’ambiente in cui egli viene lasciato libero di muoversi, risultino correttamente impostati i rapporti del minore con l’ambiente extrafamiliare, facendo ragionevolmente presumere che tali rapporti non possano costituire fonte di pericoli per sé e per i terzi, è del tutto irrilevante che il fatto illecito si sia svolto lontano da casa, giacché l’obbligo di vigilanza pe i genitori del minore capace non si pone come autonomo rispetto all’obbligo di educazione, ma va correlato a quest’ultimo, nel senso che i genitori devono vigilare che l’educazione impartita sia consona ed idonea al carattere ed alle attitudini del minore, che quest’ultimo ne abbia “tratto profitto”, ponendola in atto, in modo da avviarsi a vivere autonomamente, ma correttamente” (Cass. n. 9556/2009).

Il concorso di colpa del danneggiato

I giudici della Suprema Corte hanno invece ritenuto fondata la doglianza relativa all’esclusione del concorso di colpa in capo al danneggiato, in ragione del fatto che – a detta dei ricorrenti – la condotta da cui era derivato l’evento, era stata posta in essere in un momento diverso dall’aggressione e, quale conseguenza dei fenomeni di bullismo che avevano preceduto la reazione, senza i quali l’evento non si sarebbe determinato.

Ebbene, sul punto – a detta degli Ermellini – la corte territoriale aveva sbrigativamente negato qualunque rilievo al comportamento ripetutamente provocatorio e offensivo di cui l’agente era stato fatto oggetto da parte della “vittima”, limitandosi ad affermare paternalisticamente che egli non avrebbe dovuto reagire alle provocazioni ricevute.

La decisione, evidentemente incapace di penetrare il contesto situazionale in cui si erano svolti i fatti, aveva di conseguenza, omesso di adattarvi la regola causale.

Ebbene, “la regola di causalità applicata dal giudice, adeguata all’ipotesi in cui il destinatario di una provocazione anziché reagire istintivamente e contestualmente alla provocazione ricevuta, commisurandone modi e tempi, covi una vendetta che sfoci in un atto di aggressione violenta che, sfilacciando la dipendenza causale con il fatto che l’aveva originata, si pone alla base di una nuova ed autonoma sequenza causale, si rileva inappagante, invece, nel caso di colui che viene reiteratamente provocato e dileggiata e che reagisca alle offese di cui è stata vittima”.

È regola di esperienza quella per cui colui che è reiteratamente aggredito, reagisce come può per far cessare l’altrui condotta lesiva (Cass. n. 19294/2012).

“Quando l’autore della reazione è poi, un adolescente, vittima di comportamenti provocatori, aggressivi, mortificanti e reiterati nel tempo, occorre, in aggiunta, tener conto che la sua personalità non si è ancora formata in modo stabile e positivo rispetto alla sequela vittimizzante cui è stato sopposto; è prevedibile, infatti, – hanno aggiunto gli Ermellini – che la sua reazione possa risolversi, a seconda dei casi, nell’adozione di comportamenti aggressivi internalizzati che possono trasformarsi, con costi anche particolarmente elevati in termini emotivi, in forme di resilienza passiva e autoconservative, evolvere verso forme di autosistruzione oppure tradursi, come è avvenuto nel caso di specie, nell’assunzione di comportamenti esternalizzati aggressivi”.

Il bullismo e il ruolo della scuola e delle istituzioni

In assenza di prove circa come le istituzioni, la scuola, in particolare, fossero intervenute per arginare il fenomeno del bullismo e per sostenere l’odierno ricorrente, quindi mancando anche la prova della ricorrenza di espressioni di condanna pubblica e sociale del comportamento adottato dai cosiddetti bulli, non era legittimo attendersi da parte del danneggiante, adolescente, una reazione razionale, controllata e non emotiva.

Nel caso di specie, non solo è fuori luogo, ma è persino doveroso – hanno affermato i giudici della Suprema Corte – che l’ordinamento si dimostri sensibile verso coloro che sono esposti continuamente a condizioni vittimizzanti idonee a provocare e ad amplificar le reazioni rispetto alle sollecitazioni negative ricevute, soprattutto nei casi in cui la vittima venga privata del meccanismo repressivo istituzionale dell’illecito (…)”.

Non una sola parola era, infatti, stata spesa per chiarire se la scuola si fosse fatta carico di predisporre interventi di contrasto della piaga del bullismo attraverso un programma serio e articolato fondato su specifiche direttive psicopedagogiche e su forme di coinvolgimento dei genitori.

Per tutte queste ragioni, la sentenza impugnata è stata cassata, sul punto, con rinvio alla corte di merito per un nuovo esame.

Avv. Sabrina Caporale

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