Respinto il ricorso di un uomo finito a processo per calunnia dopo le accuse di tentato omicidio rivolte alla coniuge

Un anno e quattro mesi di reclusione. Questa l’entità della pena inflitta in sede di merito a un uomo finito a giudizio per calunnia nei confronti della moglie, con la quale era in corso un procedimento di separazione giudiziale. Il marito, nello specifico, aveva accusato la coniuge del reato di tentato omicidio mediante la somministrazione, in due occasioni, di caffè avvelenato.

Nel ricorrere per cassazione, l’imputato denunciava violazione di legge, in relazione all’art. 368 del codice penale, per la ritenuta sussistenza del reato in carenza del dolo. Dal contenuto della memoria depositata al giudice civile, infatti, traspariva l’intima e radicata convinzione dell’imputato circa la colpevolezza della moglie rispetto ai presunti episodi di avvelenamento.

A suo avviso, dunque, la Corte di appello non aveva erroneamente riconosciuto lo stato d’animo compulsivo dell’imputato, esasperato dall’estenuante conflitto giudiziario con la moglie, tale da escludere la cosciente volontà di incolparla ingiustamente, poiché aveva travisato la realtà dei fatti essendosi sentito male subito dopo l’assunzione delle bevande offertegli.

La Suprema Corte, con la sentenza n. 12208 ha tuttavia ritenuto di non aderire alle argomentazioni proposte respingendo il ricorso in quanto manifestamente infondato.

I Giudici del merito, secondo gli Ermellini,  erano pervenuti alla conclusione della coscienza e volontà, da parte dell’imputato, di accusare la moglie del reato di tentato omicidio, mediante avvelenamento, sapendola innocente. Tale conclusione era fondata su un dato di fatto incontrovertibile ovvero il risultato delle analisi tossicologiche, eseguite in occasione degli accessi al Pronto Soccorso dell’imputato, che ne smentivano l’assunto e che non erano state prodotte in occasione del deferimento del giuramento decisorio.

Le conclusioni raggiunte dalla Corte territoriale erano corrette alla stregua dei principi di diritto, in materia di accertamento della sussistenza dell’elemento psicologico del reato di calunnia, enunciati dalla stessa Cassazione, secondo i quali la consapevolezza del denunciante in merito all’innocenza della persona accusata può escludersi solo quando la supposta illiceità del fatto denunciato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi, connotati da un riconoscibile margine di serietà, e tali da ingenerare concretamente la presenza di condivisibili dubbi da parte di una persona di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza.

La giurisprudenza di legittimità, quindi, ha chiaramente tracciato una linea di discrimine, stabilendo che se l’erroneo convincimento sulla colpevolezza dell’accusato riguarda fatti storici concreti, suscettibili di verifica o, comunque, di una corretta rappresentazione nella denuncia, l’omissione di tale verifica o rappresentazione viene a connotare effettivamente in senso doloso la formulazione di un’accusa espressa in termini perentori. Di contro, solo quando l’erroneo convincimento riguardi i profili valutativi della condotta oggetto di accusa, in sé non descritta in termini difformi dalla realtà, l’attribuzione dell’illiceità potrebbe apparire dominata da una pregnante inferenza soggettiva, come tale inidonea, nella misura in cui non risulti fraudolenta o consapevolmente forzata, ad integrare il dolo tipico del delitto di calunnia.

Ne discende che l’ingiustificata attribuzione come vero di un fatto del quale non si è accertata la realtà presuppone la certezza della sua non attribuibilità sic et simpliciter all’incolpato.

A fronte di un quadro fattuale quale quello evidenziato dalla Corte di merito e, cioè, l’avere strumentalmente taciuto la negatività degli esami tossicologici e prospettato le sue convinzioni come vere, era stato correttamente escluso che l’erroneo convincimento dell’imputato riguardasse profili valutativi della condotta oggetto di accusa e che l’attribuzione dell’illiceità potesse ritenersi dominata da una pregnante inferenza soggettiva, come tale inidonea ad integrare il dolo tipico del delitto di calunnia.

La redazione giuridica

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