L’obbligo di conservazione della cartella clinica è illimitato nel tempo, perchè essa rappresenta un atto ufficiale

La vicenda

Gli attori, rispettivamente moglie e figlio, di un paziente operato nel 2007 in una clinica ospedaliera della capitale, avevano agito in giudizio contro quest’ultima, al fine di ottenere il risarcimento di tutti i danni patiti dal proprio congiunto, a seguito di un intervento operatorio di rivascolarizzazione miocardica, eseguito tramite innesto di cinque bypass.

L’operazione, in questione, era stata eseguita per risolvere una patologia di “sindrome coronarica acuta e stenosi dei vasi coronarici”.

Gli esponenti avevano, tuttavia, evidenziato che dopo l’intervento si erano verificati problemi di instabilità emodinamica e di tenuta delle suture, tanto da rendere necessario un secondo intervento.

Ma neppure questo fu risolutivo: una infezione da stafilococco aureo con ascessualizzazione nel cavo mediastinico, rese necessaria l’esecuzione di una terza operazione di revisione sternale.

L’infezione, tuttavia, non si arrestò e di li a poco, il decesso.

Per i familiari della vittima la morte del loro congiunto era da ascrivere alla “mancata sospensione del trattamento antiaggregante in corso, al mancato tempestivo inizio della profilassi antibiotica al fine di prevenire l’insorgere dell’infezione e, al ritardo con il quale era stato eseguito l’intervento chirurgico per contrastare l’infezione insorta”.

Si costituì in giudizio la struttura ospedaliera, la quale chiamò in causa il chirurgo, l’anestesista e l’assistente.

In primo grado il Tribunale di Roma condannò la clinica e i medici convenuti a risarcire gli eredi della somma di Euro 901.246,11.

A supporto della propria decisione il tribunale capitolino pose il mancato assolvimento dell’onere della prova liberatoria da parte dei convenuti.

Non avendo, questi ultimi, prodotto la cartella clinica, il Tribunale ritenne sussistente la loro responsabilità in ordine alla mancata prevenzione e al deficitario trattamento dell’infezione insorta, per omessa somministrazione di copertura antibiotica.

Il processo proseguì in appello, soltanto su impulso dei sanitari. L’ospedale, invece, non impugnò la sentenza di condanna che nel frattempo, passò in giudicato.

La Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ripartì diversamente le responsabilità sotto il profilo interno: 80% in capo alla clinica e la restante percentuale in capo ai medici convenuti. Affermò che la causa della morte del paziente doveva ricondursi alla comparsa di una infezione nosocomiale, imputabile a carenze strutturali e organizzative della casa di cura. Aggiunse però, che anche il comportamento dei tre medici non poteva ritenersi del tutto esente da responsabilità, avendo spiegato un apporto concausale nella morte del paziente.

Ad ogni modo, la Corte d’appello fece proprie le conclusioni cui era pervenuto il collegio peritale, che aveva, a sua volta preso atto della parziale mancanza della cartella clinica (della quale la struttura sanitaria aveva denunciato lo smarrimento) e valutato i rilievi eseguiti dal consulente già in sede di accertamento tecnico preventivo nel 2007.

“A fronte dei tre deficit di diligenza e di perizia individuati a carico dei medici, sarebbe stato onere di questi ultimi provare che la causa dell’insorgere dell’infezione (individuata in sè come causa della morte del paziente) fosse diversa e avulsa dall’intervento medico, al punto di costituirne una evoluzione anomala e imprevedibile”.

Non avendo tuttavia, fornito tale prova liberatoria, la Corte d’appello li ritenne parzialmente responsabili, sebbene in percentuali ridotte.

A detta del collegio territoriale “le carenze od omissioni (anche meramente documentali) della cartella clinica – concernenti il caso clinico in esame  – non possono ripercuotersi a danno del paziente, trattandosi di documentazione che è obbligo del medico e della struttura sanitaria non solo compilare ma, anche e soprattutto, conservare al fine di dimostrare la correttezza dell’iter diagnostico, terapeutico e curativo seguito nel caso concreto”.

Il ricorso per Cassazione

La vicenda è giunta in Cassazione, a seguito del ricorso formulato dai tre medici.

Per i difensori dei tre ricorrenti, “una cosa è l’obbligo di compilazione della cartella clinica, certamente gravante anche sui sanitari; altro è, invece, l’obbligo di conservazione della  stessa; ebbene tale ultimo obbligo non può “ridondare a carico del medico in termini assoluti”.

L’art. 7 del D.P.R. n. 128 del 1969 prevede che per tutta la durata del ricovero, responsabile della tenuta e conservazione della cartella clinica sia il medico (in particolare, il responsabile della unità operativa ove è ricoverato il paziente).

Questi esaurisce il proprio obbligo di provvedere oltre che alla compilazione, alla conservazione della cartella clinica nel momento in cui viene consegnata all’archivio centrale. È soltanto in questo fase che la responsabilità per omessa conservazione della cartella si trasferisce in capo alla Struttura sanitaria, che ha l’obbligo di conservarla in luoghi appropriati, non soggetti ad alterazioni climatiche e non accessibili da estranei.

L’obbligo di conservazione delle cartelle, come ribadito dalle successive circolari del Ministero della Sanità, è illimitato nel tempo, perchè le stesse rappresentano un atto ufficiale. A tal fine, è in progetto la realizzazione della digitalizzazione degli archivi sanitari, che comporterà il passaggio dalle cartelle cliniche cartacee alle cartelle cliniche digitali, proprio per superare i problemi connessi allo smarrimento e alla deperibilità naturale delle cartelle.

I giudici della Suprema Corte hanno perciò, ribadito quanto già affermato dalla Corte di merito e cioè che le carenze od omissioni relative all’obbligo di tenuta e conservazione della documentazione clinica non possono andare a danno del paziente, né possono operare in pregiudizio del medico per la successiva fase di conservazione.

In quest’ottica, il medico viene a trovarsi in una posizione simmetrica a quella del paziente, rischiando a sua volta di essere pregiudicato dalla impossibilità di documentare le attività svolte e regolarmente annotate sulla cartella clinica.

Ciò detto, tuttavia, non è stato sufficiente a ritenere io tre medici esenti da responsabilità.

Questi – a detta degli Ermellini – avrebbero dovuto attivarsi al fine di “articolare nel modo migliore la propria difesa”, essendo nel loro potere e dovere quello di richiedere copia alla struttura per acquisirne la disponibilità al fine di assolvere l’onere probatorio.

“Se non possono ritenersi, infatti, gravati dagli obblighi di conservazione nei termini sopra indicati, essi non sono esenti dall’ordinario onere probatorio”.

Ad ogni modo, il Giudice d’appello non aveva condannato i tre medici appellanti soltanto sotto il profilo dell’omessa conservazione della cartella.

Il giudizio di responsabilità era fondato su altri elementi di per sè idonei a sorreggerla (e, in particolare, su tre specifici e autonomi profili: anzitutto, la mancata somministrazione di antibiotico-terapia; in secondo luogo, la mancata sospensione in tempo utile della terapia antiaggregante piastrinica e comunque l’intempestivo adeguamento di misure terapeutiche di prevenzione nella fase successiva al primo intervento, ed infine, la mancata scheletrizzazione delle arterie mammarie nel primo intervento chirurgico).

A fronte di questi dati medico/specialistici accertati in giudizio e, a prescindere dalla lacunosità della cartella clinica, è stato possibile affermare la loro responsabilità, non avendo essi fornito la prova che l’insorgenza dell’infezione fosse del tutto avulsa dall’intervento medico eseguito, al punto da costituire una evoluzione del tutto anomala e imprevedibile.

La redazione giuridica

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