Sotto il profilo della colpa ciò che rileva è la ragionevole prevedibilità del suicidio del ricoverato, che risulta non allegata e non provata (Corte d’Appello di Reggio Calabria, Sentenza n. 131/2021 pubbl. il 08/03/2021 RG n. 400/2010)

La Casa di Cura propone appello avverso la sentenza n. 462/2010 del Tribunale di Reggio Calabria, con cui è stata condannata in solido con l’ASL n. 11 di Reggio Calabria, al pagamento, della somma di euro 108.795,47 in favore dei congiunti del paziente deceduto a causa di suicidio mentre si trovava ricoverato.

Deduce parte appellante che erroneamente il giudice ha ritenuto la Cooperativa parte del rapporto contrattuale avente ad oggetto il ricovero del paziente.

Osservano gli appellati che il c.d. Progetto obiettivo Tutela salute mentale, approvato con d.P.R. dell’1 novembre 1999, persegue tra gli obiettivi specifici quello della prevenzione dei suicidi dei soggetti affetti da infermità mentale.

Deducono che l’educatore, che avrebbe dovuto assistere la vittima in corrispondenza con l’orario del decesso, era in quel preciso momento unico responsabile della vigilanza al fine precipuo di prevenire il suicidio del ricoverato.

Il primo Giudice dava atto che le informazioni in possesso dell’ASL e della Cooperativa fossero idonee a fondare, secondo i parametri di competenza e diligenza professionale, il giudizio prognostico sulla possibilità/probabilità di atti anticonservativi, escludendo l’applicabilità dell’art. 1227 c.c.

La Suprema Corte ha chiarito che “ In caso di suicidio del paziente, avvenuto mentre questi era ricoverato in una struttura ospedaliera, la domanda risarcitoria degli stretti congiunti per la menomazione del rapporto parentale ha natura extracontrattuale, senza che sia possibile richiamare la figura dei “terzi protetti dal contratto” posto che non è dato riscontrare gli indici normativi o di carattere costituzionale valevoli nel sottosistema dei danni da nascita indesiderata” .

Nella specie, gli attori lamentavano che il paziente, con una lunga storia clinica di malato psichiatrico, con ricoveri anche in regime di TSO, era stato ricoverato per problematiche respiratorie nel reparto di medicina, e che non erano state adottate debite precauzioni ed era stato loro permesso di prestare assistenza per la notte, nel corso della quale il congiunto si era lanciato da una finestra .

La Suprema Corte ha ribadito che in relazione alla domanda risarcitoria proposta, in via contrattuale, dalla figlia di una donna affetta da morbo di Alzheimer, e ricoverata presso una residenza per anziani, in merito alla morte della propria genitrice, deceduta a seguito di precipitazione da una finestra della stanza di degenza, la Corte ha escluso che l’azione esercitata fosse riconducibile alla previsione di cui all’art. 1218 c.c.,

Ciò, sul rilievo che “il rapporto contrattuale risultava intercorso tra la stessa casa di riposo e la ricoverata, non certo tra la prima e la figlia della seconda”, di talchè, “l’ambito risarcitorio” nel quale la domanda doveva “essere inquadrata” fu ritenuto “necessariamente di natura extracontrattuale”.

Dunque, l’azione proposta dagli attori, odierni appellati, deve configurarsi quale azione di natura extracontrattuale, avendo la responsabilità della struttura e della Cooperativa, natura extracontrattuale.

La Corte non condivide la qualificazione operata dal Giudice di prime cure, che ha ritenuto l’azione di natura contrattuale , con conseguente applicazione della disciplina di cui all’art. 1218 c.c. anche sul piano probatorio.

In ragione di ciò, incombe sul danneggiato l’onere della prova della colpa e del nesso di causalità tra il comportamento del (o comunque imputabile al) danneggiante e l’evento lesivo.

Ebbene, la circostanza che il paziente necessitava di assistenza continua a causa del proprio stato di salute, non è supportata da adeguata prova essendo del tutto carente documentazione medica in tal senso.

I soggetti ricoverati presso la Struttura convenuta sono potenzialmente con autonomia ridotta, e non azzerata e sono soggetti per i quali si prevede “un programma di riabilitazione finalizzato al recupero e alla integrazione (…) nel territorio.

Quindi sono soggetti la cui capacità di intendere e volere e di autodeterminazione non è annullata e che conservano un, sia pur ridotto, margine di autonomia, fatte salve peculiari situazioni, di cui non vi è prova.

L’ambiente della Comunità Alloggio in nessun modo è assimilabile – neanche dal punto di vista della libertà di movimento – a quello di un ambiente carcerario o a quello di un manicomio.

Difatti, in regime di degenza sono previste uscite sul territorio, momenti ludici, cinema, teatro, museo, ecc.

Da ciò si desume che gli ospiti della Comunità Alloggio necessitano di vigilanza attenta, ma che non si deve concretizzare in un controllo ininterrotto implicante stretta vicinanza fisica per l’intero arco della giornata.

La cogenza della vigilanza, ricorda la Corte, deve essere proporzionale all’in capacità o alla concreta pericolosità del soggetto, pena, diversamente, una lesione della dignità del soggetto, con conseguente violazione dell’art. 32 secondo comma della Costituzione, che vieta i trattamenti sanitari obbligatori senza una disposizione di legge e che comunque prevede che la legge “non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della dignità della persona “.

Oltretutto, la violazione di siffatto principio di proporzionalità si porrebbe in radicale contraddizione, oltre che con la tutela della dignità, con la finalità perseguita nella convenzione tra USL e Comunità, ovverosia: recupero, integrazione del soggetto nel territorio, inserimento lavorativo.

La vigilanza deve quindi concretizzarsi in tutte le misure necessarie per la tutela della salute ma non oltre; vale a dire non può comportare misure di controllo eccedenti quelle necessarie e sufficienti per garantire la tutela della salute.

Ebbene, discorrendosi di carattere extracontrattuale della responsabilità, l’onere di tale prova incombeva sugli attori e tale prova non è stata offerta.

Quanto dedotto dagli appellanti, circa il fatto che in base al calendario delle attività riabilitative, allegato alla convenzione, gli operatori della Cooperativa, alle ore 8:30, dovevano trovarsi a stretto contatto con il congiunto deceduto, potrebbe rilevare sul piano della verifica del nesso causale, non anche sotto il profilo della colpa.

Sotto il profilo della colpa ciò che rileva è la ragionevole prevedibilità del gesto autolesionistico, che risulta non allegata e non provata.

Per tali ragioni vengono accolte le doglianze della Casa di Cura e dell’Asl e rigettate quelle

Considerata la complessità della questione e l’assenza di specifici precedenti giurisprudenziali, la Corte d’Appello compensa tra le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio.

Avv. Emanuela Foligno

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