Non è possibile pretendere dall’ente pubblico la recinzione o la segnalazione generalizzata di tutti i perimetri boschivi indipendentemente dalle loro peculiarità concrete. Lo ha deciso la Cassazione all’esito del giudizio proposto da un agricoltore aggredito da un cinghiale fuggito dall’oasi naturale vicina
La vicenda
La Corte d’appello di Messina, in accoglimento dell’appello principale proposto dall’assessorato Agricoltura e Foreste della Regione Sicilia, convenuto in giudizio, aveva rigettato la domanda di risarcimento dei gravi danni alla persona conseguiti al danneggiato in seguito all’aggressione da parte di un cinghiale proveniente dall’oasi naturale, adiacente al terreno di sua proprietà ove svolgeva l’attività di coltivatore diretto.
Dopo tale sentenza di senso negativo l’originario attore decideva di presentare ricorso in sede di legittimità, per denunciare l’illegittimità della sentenza impugnata.
I giudici della corte territoriale avevano escluso il suo diritto al risarcimento danni sull’assunto che egli si fosse limitato a denunciare la violazione dell’obbligo di recintare l’oasi naturale da cui proveniva il cinghiale che lo aveva attaccato e per quanto riguarda la denuncia “dell’omessa attuazione di ogni misura idonea ad evitare che gli animali selvatici arrechino danni a persone o cose”, aveva omesso di indicare quali misure l’amministrazione convenuta avrebbe dovuto adottare in concreto, a salvaguardia della incolumità delle persone.
Il ricorso per Cassazione
Investiti della vicenda in esame, i giudici Ermellini ribadiscono sin da subito che verte in materia di responsabilità aquiliana e che quindi, costituisce onere della parte danneggiata indicare la causa efficiente del danno.
Sul punto vale quanto riferito dalla Terza Sezione civile della Cassazione con la sentenza n. 7080 del 2006, ove è stato affermato che il danno cagionato dalla fauna selvatica non è risarcibile in base alla presunzione stabilita dall’art. 2052 c.c., inapplicabile per la natura stessa degli animali selvatici, ma soltanto alla stregua dei principi generali sanciti dall’art. 2043 c.c., anche in tema di onere della prova, e perciò richiede l’individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico.
Ma è in realtà lo stesso indirizzo prevalente a stabilire che il danno cagionato dalla fauna selvatica, che ai sensi della L. 27 dicembre 1977, n. 968, appartiene alla categoria dei beni patrimoniali indisponibili dello Stato, non è risarcibile in base alla presunzione stabilita nell’art. 2052 c.c., inapplicabile con riguardo alla selvaggina, il cui stato di libertà è incompatibile con un qualsiasi obbligo di custodia da parte della pubblica amministrazione, ma solamente alla stregua dei principi generali della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c., anche in tema di onere della prova e richiede, pertanto, l’accertamento di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’Ente pubblico.
La legge n. 157/1992
La situazione non è poi mutata con l’entrata in vigore della L. n. 157 del 1992, la quale ha ribadito che: “la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale”, posto che si tratta di espressione di una politica di sostegno dell’equilibrio ecologico che di per sé non impone alla pubblica amministrazione l’obbligo di attuare generali misure di protezione e di sorveglianza, fatti salvi i pericoli intercettati e segnalati in concreto e non adeguatamente considerati.
Anche la Corte Costituzionale, interpellata in merito, ha escluso la sussistenza di una irragionevole disparità di trattamento tra il privato, proprietario di un animale domestico (o in cattività), e la Pubblica Amministrazione, nel cui patrimonio sono ricompresi anche gli animali selvatici, sotto il profilo che gli eventuali pregiudizi, provocati da “animali che soddisfano il godimento della intera collettività, costituiscono un evento puramente naturale di cui la comunità intera deve farsi carico, secondo il regime ordinario e solidaristico di imputazione della responsabilità civile, ex art. 2043 c.c.” (Corte cost., ord. n. 4 del 4 gennaio 2001).
Ebbene, così ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale deve dirsi che la gestione della fauna assegnata alla regione (alla stregua della L. n. 157 del 1992 che all’art. 26 prevede la costituzione di fondo per il risarcimento dei danni alle coltivazioni cagionati dalla detta fauna), non comporta quindi che qualunque danno cagionato da essa sia addebitabile all’ente territoriale preposto, occorrendo l’allegazione, o quantomeno la specifica indicazione, di una condotta omissiva efficiente sul piano della presumibile sua ricollegabilità al danno ricevuto; quale ad esempio, la anomala incontrollata presenza di molti animali selvatici sul posto – l’esistenza di fonti incontrollate di richiamo di detta selvaggina verso la sede stradale – la mancata adozione di tecniche di captazione degli animali verso le aree boscose e lontane da strade e agglomerati urbani etc.
La decisione
Tanto è bastato ai giudici della Cassazione per confermare la sentenza impugnata che aveva fatto corretta applicazione dei principi sopra citati e, nella specie, ove avevano affermato ove avevano affermato che non è possibile pretendere dall’ente pubblico la recinzione o la segnalazione generalizzata di tutti i perimetri boschivi indipendentemente dalle loro peculiarità concrete.
Al contrario, l’attore avrebbe semmai dovuto dimostrare che il luogo del sinistro fosse all’epoca abitualmente frequentato da animali selvatici, con un numero eccessivo di esemplari tale da costituire un vero e proprio pericolo per le proprietà vicine, anche se adeguatamente protette, ovvero fosse stato teatro di precedenti incidenti tali da allertare le autorità preposte sulla sussistenza di un concreto pericolo per l’uomo.
La redazione giuridica
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