In materia di colpa medica, la Cassazione ha affermato che non può essere accolta la richiesta di rimessione in istruttoria e di nuova CTU per verificare una causa del decesso, formulata più di due anni dopo l’inizio della causa e completamente diversa e distinta da quella dedotta nell’atto introduttivo
La controversia aveva avuto origine dal decesso di un paziente, verificatosi secondo la moglie e i figli, per colpa medica consistita nella mancata corretta prestazione delle cure e nella mancata corretta gestione delle complicanze relative alla fase post operatoria di un intervento cardiochirurgico di inserzione di un tubo protesico nell’aorta, cui il paziente si era sottoposto 15 mesi prima.
L’uomo, affetto “da aneurisma sacciforme dell’aorta ascendente con severa stenosi coronarica monovasale, in un quadro di notevole rischio cardiovascolare per ipertensione arteriosa, dislipidemia, diabete mellito e pregressa abitudine tabagica”, nel dicembre del 2012 si era sottoposto ad un complesso ed articolato intervento chirurgico programmato, cd. a cuore aperto, “di inserzione di tubo protesico nell’aorta discendente ed arco aortico ed aorta ascendente”.
Secondo i ricorrenti il decesso si era verificato perché i sanitari non avevano saputo fronteggiare l’infezione peripotesica che associata, alla fistola aorto-esofagea generatasi dopo l’intervento, aveva portato all’evento infausto. Per queste ragioni chiedevano la solidale condanna al risarcimento del danno non patrimoniale subìto, iure proprio per la perdita parentale ed iure hereditario per le sofferenze patite dal de cuius, anche a titolo di perdita di chance.
All’esito del giudizio, l’adito Tribunale di Reggio Emilia ha ritenuto di poter decidere la causa senza bisogno di disporre una CTU, basandosi unicamente sulla perizia medico-legale disposta dal P.M. nel corso del procedimento penale, instaurato nei confronti dei medici per omicidio colposo, e conclusosi con il provvedimento di archiviazione del GIP emesso su conforme richiesta del P.M.
Per il giudice emiliano, tale prova (atipica) ben poteva essere posta a fondamento della decisione.
Come è noto, si possono definire prove atipiche quelle che non si trovano ricomprese nel catalogo dei mezzi di prova specificamente regolati dalla legge. Nell’ordinamento civilistico manca infatti, una norma generale, quale quella prevista dall’art. 189 c.p.p. nel processo penale, che legittima espressamente l’ammissibilità delle prove non disciplinate dalla legge. Tuttavia, l’assenza di una norma di chiusura nel senso dell’indicazione del numerus clausus delle prove, l’oggettiva estensibilità contenutistica del concetto di produzione documentale, l’affermazione del diritto alla prova ed il correlativo principio del libero convincimento del Giudice, inducono le ormai da anni consolidate ed unanimi dottrina e giurisprudenza ad escludere che l’elencazione delle prove nel processo civile sia tassativa, ed a ritenere quindi ammissibili le prove atipiche, le quali trovano ingresso nel processo civile, nel rispetto del contraddittorio, con lo strumento della produzione documentale e nel rispetto delle preclusioni istruttorie (Cass. n. 5440/2010, Cass. n. 7518/2001, Cass. n. 12422/2000, Cass. n. 2616/1995, Cass. n. 623/1995, Cass. n. 12091/1990, Cass. n. 5792/1990).
Nell’alveo delle prove atipiche, sicuramente rientrano anche le perizie e le consulenze espletate in un diverso giudizio tra le stesse od altre parti (Cass. n. 15714/2010, Cass. n. 2904/2009, Cass. n. 28855/2008, Cass. n. 12422/2000, Cass. n. 8585/1999, Cass. n. 16069/2001), e quindi anche la perizia disposta dal P.M., tanto più in un contesto come quello di causa nel quale i due periti erano rispettivamente, un docente universitario grande esperto della materia ed un medico legale particolarmente apprezzato nel locale ambiente forense e spesso nominato CTU nelle controversie civilistiche.
Tanto premesso, i periti del P.M. avevano escluso, con motivazione convincente e pienamente condivisibile, la sussistenza della colpa medica.
L’intervento al quale si era sottoposto il paziente, presentava senza dubbio, una particolare ed oggettiva difficoltà tecnica, vista anche la” significativa percentuale di morbilità/mortalità” ad esso connessa, pertanto, nulla si poteva eccepire “in merito all’indicazione dell’intervento chirurgico ed alla tecnica operatoria adottata”.
Anche con riguardo alle complicanze verificatesi sin dall’immediato post operatorio, i periti avevano escluso la sussistenza di alcuna responsabilità in capo ai sanitari.
Tale complicanza, “silente fino ad una settimana prima del decesso” – si legge nella perizia – era stata “correttamente trattata con cura antibiotica”.
Una diversa e più mirata cura, così come pure un ulteriore intervento chirurgico, “non sarebbero stati idonei e neppure consigliati, visto l’elevatissimo rischio di morte o di ulteriori complicanze morbose, ad impedire l’infausto evento poi verificatosi”: ciò rende “indimostrabile un nesso eziologico tra le condotte ipotizzabili come doverose e l’evento”, e quindi esclude il nesso causale tra la condotta dei medici e la morte del paziente, posto che “qualunque fosse stata la scelta terapeutica intrapresa, l’evento morte non si sarebbe comunque potuto impedire, vista la situazione di estrema gravità e criticità in cui versava il paziente, dovuta anche al fatto che nel corso dei mesi successivi all’intervento tale complicanza è sempre rimasta silente”.
La richiesta di nuova CTU
Il Tribunale di Reggio Emilia (Seconda Sezione, sentenza n. 229/2020) ha, infine, rigettato la richiesta dei ricorrenti in ordine alla rimessione in istruttoria della causa per potere verificare, tramite CTU, se il decesso del loro congiunto potesse ritenersi causalmente collegato ad una “infezione da microbatterio chimera”.
La richiesta di rimessione in istruttoria e di nuova CTU – ha affermato il giudice emiliano – non può essere accolta, per l’assorbente rilievo relativo al fatto che trattasi di una asserita causa del decesso formulata più di due anni dopo l’inizio di causa e completamente diversa e distinta da quella dedotta nell’atto introduttivo: trattasi quindi di domanda radicalmente nuova nella sua causa petendi, che evidenzia un presunto profilo di colpa dell’ospedale (l’omessa manutenzione del macchinario) assolutamente differente da quello azionato dell’atto introduttivo con riferimento ai medici (la non corretta prestazione di cure da parte dei sanitari per una complicanza post operatoria).
La decisione
In altre parole, l’eventuale infezione da microbatterio chimera avrebbe imposto un’istruttoria sulla manutenzione del macchinario da parte dell’ospedale, non già sulla colpa medica drivata dal comportamento dei sanitari nel periodo post operatorio, senza considerare che la correlazione tra l’infezione e l’utilizzo del macchinario al momento dei fatti di causa neppure era nota.
Per queste ragioni, la domanda è stata rigettata.
La redazione giuridica
Leggi anche:
IL MEDICO HA L’OBBLIGO DI INFORMARE IL PAZIENTE DEI MEZZI DIAGNOSITICI DISPONIBILI