Colpa medica: tra medicina difensiva ed appropriatezza diagnostica

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La Legge n° 125/2015, in vigore dal 15 agosto 2015,  che ha convertito con modificazioni il DL 78/2015 recante Disposizioni urgenti in materia di Enti Territoriali, all’art. 9-quater, rubricato Riduzione delle prestazioni inappropriate, ha introdotto una limitazione ex lege, da definire con decreto ministeriale,  alla discrezionalità prescrittiva del medico di esami diagnostici.  

Il dibattito sul rapporto tra colpa medica e medicina difensiva si arricchisce ogni giorno di nuovo materiale di discussione. Una predeterminazione standard  del tipo e numero di esami prescrivibili da parte dell’esercente la professione  sanitaria appare prima facie in contrasto  con la ratio  della legge Balduzzi  di  contenere le prescrizioni diagnostiche e strumentali riducendo l’esposizione al rischio penale del medico. L’art. 3 co.1  D.L. n° 158/2012 convertito in Legge n° 189/2012  ha infatti previsto una sorta di depenalizzazione per le condotte rispettose di linee guida e best practies,  in presenza di elemento psicologico caratterizzato da “colpa lieve”. Introducendo la misura soggettiva della colpa a soglia della rilevanza penale, la legge Balduzzi sup.cit. induce altresì il giudicante a compiere una  valutazione dell’esigibilità in concreto e non in astratto della condotta doverosa da parte del soggetto agente,  in attuazione al principio di personalità della responsabilità penale restando esclusa la redarguibilità  di colui che ha agito in stato d’emergenza o che non si è attenuto a  regole tecnico-cautelari di elevata specializzazione  esulanti dalla sua precipua sfera di competenza.

L’applicazione giurisprudenziale ha chiaramente evidenziato come  la portata scriminante dell’osservanza di linee guida e protocolli possa esplicarsi esclusivamente con riferimento alle prescrizioni di contenuto effettivamente cautelare rispetto ai beni  della vita e dell’incolumità personale oggetto di tutela delle fattispecie incriminatrici colpose.  Fa riflettere la circostanza che sia proprio la natura  dell’atto medico, necessitante di adattamento al singolo paziente e caso clinico,  con le sue peculiarità anagrafiche, fisiche e genetiche, a impedire, insieme ad altri motivi, che prescrizioni e raccomandazioni codificate da enti, istituzioni e società scientifiche possano assurgere al ruolo di fonte di  discipline fondanti colpa “specifica” secondo il paradigma dell’art. 43 C.P. capaci di escludere ab origine ogni responsabilità in caso di osservanza di regole standard astrattamente previste.

Non a caso la dottrina ha efficacemente individuato e distinto,  ipotesi di responsabilità  per “divergenza” ma anche per  “adesione” a linee guida,  le quali, nell’applicazione giurisprudenziale, sono state rinvenute,  ad esempio, nella condotta di prematura dimissione ospedaliera in negligente osservanza a “raccomandazioni” di incerta natura e provenienza, ispirate a logiche di economicità della gestione e in contrasto con le esigenze di cura del paziente e in quella di tentativo di intubazione del paziente in attesa dell’intervento di un otorino in osservanza a protocolli operativi, quando la prudenza, a fronte di evidenza di uno shock anafilattico,  avrebbe dovuto suggerire di eseguire quanto prima una tracheo-tomia. Ed ecco quindi che la preventiva  limitazione del numero di prestazioni prescrivibili a carico del SSN, qualora troppo rigida  e addirittura corredata da sanzioni per il sanitario che non la rispetti, si presenta  suscettibile di implementare la casistica di errore diagnostico, atteso che molti pazienti saranno portati a non effettuare privatamente l’accertamento ritenuto superfluo nei protocolli di “appropriatezza” elaborati con decreto ministeriale.

Il novum normativo rischia altresì di acuire il già complicato rapporto  medico-paziente  sotto il profilo della percezione di ingiustizia ed evitabilità dell’evento lesivo  da parte di chi si è visto negare un esame che avrebbe potuto indirizzare a miglior terapia. Si riscontra inoltre una preoccupante discrasia con altre situazioni in cui, al contrario, è proprio il servizio sanitario nazionale a chiedere l’esecuzione di visite ed esami invasivi la cui finalità non appare direttamente riconducibile  a motivi di  prevenzione e cura. E’ il caso dell’intolleranza al glutine. Un soggetto adulto che scopre la presenza nel siero dei tipici anticorpi indicativi di “celiachia” si sente infatti dire dal medico di famiglia prima e dallo specialista gastroenterologo poi, che per la sua salute è necessario  astenersi dal consumare alimenti che contengono glutine  ma che, se vuole anche la diagnosi, quasi fosse un surplus,  dovrà sottoporsi ad ulteriore visita presso uno specifico gastroenterologo indicato in ogni distretto dal  SSN, il quale ne subordina il rilascio all’esecuzione di gastroduodenoscopia con prelievo di campione tissutale da sottoporre a biopsia.

Il potenzialmente celiaco, già positivo a prove sierologiche e munito di test genetico che accerta la presenza degli aplotipi tipicamente associati,  il quale ha intrapreso una dieta aglutinata a seguito della quale ha potuto accertare la scomparsa di anticorpi  e vuole anche la diagnosi, deve quindi, contro ogni logica di prevenzione,  sottoporsi a challenge (letteralmente: sfida) con glutine,  a  fini biopsia. Non vi è chi non veda come  tale  sfida  sia suscettibile di aggravare la condizione clinica e malattie autoimmuni associate di cui non raramente il potenzialmente celiaco  è già affetto, senza contare i rischi dell’esecuzione di una procedura di EGDS con prelevamento di campione di tessuto la quale, seppur raramente, registra pur sempre casi  di emorragia, perforazioni e lacerazioni. Il criterio di proporzione di un tale invasivo esame, un tempo probabilmente rinvenibile nella necessità di riscontrare un danno istologico prima di prescrivere ad un soggetto una dieta limitativa,  non presenta infatti ai tempi odierni un’evidente ragion d’essere,  sia perché gli alimenti  gluten free sono in vendita presso la grande distribuzione e sono fiorite pasticcerie e ristoranti e pizzerie  dedicati,  e sia perché il suo esito, anche quando negativo,  alla luce dei progressi della ricerca scientifica che ha evidenziato come  la stessa possa manifestarsi con gravi ripercussioni a livello sistemico senza danno duodenale,  non potrà assumere valenza  dirimente al fine di escludere la patologia.

Sfugge quindi l’utilità, in termini di  prevenzione e cura,  di effettuare anche questa procedura invasiva,  la cui esecuzione ben potrebbe essere riservata, e senza limitazioni,  a sospetti diagnostici di  gravi patologie necessitanti di individuare la giusta terapia,  riducendo i tempi di attesa che spesso impediscono tempestive diagnosi. Contraddizioni di questo tipo, in cui da un lato si assiste al  taglio  del numero di prestazioni diagnostiche e strumentali eseguibili per individuare una patologia e dall’altro si ha invece l’imposizione di esami invasivi  anche  quando la patologia è già emersa in altri screening e la cura consiste nella mera dieta e non anche nella somministrazione di pericolosi farmaci, contribuiscono ad incrementare la diffidenza nei confronti di questi  protocolli diagnostici rispetto  alla miglior scienza ed esperienza volta all’esclusiva tutela della salute la cui sola osservanza può peraltro escludere, in presenza di colpa non grave,  la rilevanza penale della condotta, attiva od omissiva, dalla quale abbia eziologicamente ad innestarsi l’evento lesivo occorso al paziente.

Art. 9-quater Legge 125 del 2015

BIBLIOGRAFIA

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