Il sig. D. M. risulta essere affetto da epatite cronica HCV-correlata sin dal 1990. Nel 1993 effettuava un ricovero ospedaliero per epatite acuta HCV-correlata, con successiva cronicizzazione. Nel 1994 il paziente fu sottoposto a trattamento con interferone standard, senza acquisire peraltro risposta virologica sostenuta.
Dal 1994 al 2000 il paziente non effettuava controlli epatologici, né si rendevano necessari ricoveri ospedalieri per qualsivoglia motivo.
Tra il gennaio del 2000 ed il marzo del 2006 il paziente veniva sottoposto a numerosi controlli ambulatoriali specialistici ortopedici a causa di diverse patologie succedutesi nel tempo, quali: borsite pararotulea, contusioni multiple, tumefazione del collo del piede dx, sofferenza del nervo mediano. Tutti i controlli venivano eseguiti presso la stessa ULSS.
Nonostante i numerosi accessi ospedalieri, non vi sono riferimenti alla patologia epatica e non risulta l’effettuazione di specifici esami laboratoristici, né consulenze specialistiche o provvedimenti terapeutici in merito all’infezione da HCV.
Dalla raccolta anamnestica risulta che nel 2003 venne sottoposto alla prima biopsia epatica che mostrava la presenza di fibrosi di 3° grado.
Il primo importante dato di allarme circa i rischi connessi all’infezione da HCV, così inspiegabilmente sottovalutato, risale al maggio del 2006; in data 11 maggio 2006, infatti, il paziente effettuava un controllo presso la USSL di appartenenza per riscontro di lesione genericamente definite come macchia alla gamba destra. Veniva posta diagnosi di sospetta porpora gamba destra e venivano prescritti di esami di laboratorio che venivano effettuati il giorno successivo (12.05.2006) sempre presso la stessa ULSS, e che evidenziavano elevati valori di transaminasi (AST: 77, ALT: 204) e soprattutto la presenza di crioglobulinemia con elevati valori di criocrito (4%) e positività degli autoanticorpi anti nucleo (ANA), seppure a titolo non particolarmente elevato (1:80, cut off di negatività < 1:40). La consulenza internistica effettuata riportava: Verosimile porpora post-infettiva o iatrogena, gli ho prescritto degli esami e lo rivedrò domani mattina, ma nulla venne poi fatto.
Sono francamente incomprensibili i motivi per cui, già in questo momento, di fronte ad un paziente con:
1. infezione cronica da HCV nota da almeno 16 anni;
2. anamnesi di precedente trattamento con interferone standard (notoriamente di scarsissima efficacia terapeutica);
3. elevati valori di transaminasi (ALT: 204), chiara espressione di danno epatico;
4. evidente presenza di manifestazioni extraepatiche, data la positività della crioglobulinemia;
5. la presenza di chiaro corrispettivo clinico (evidenti manifestazioni di porpora arti inferiori);
non si sia provveduto a:
a. immediata valutazione del danno epatico con biopsia epatica ecoguidata;
b. definizione dello status virologico del paziente tramite determinazione del genotipo del virus dell’epatite C e della viremia quantitativa (HCV-RNA sierico, espressione della replicazione virale);
c. avvio di un programma terapeutico antivirale.
Va infatti ricordato a questo punto che nel 2006 erano già disponibili i nuovi trattamenti con Interferone peghilato di II generazione e Ribavirina, che non solo garantivano un’elevata percentuale di risposta virologica sostenuta (SVR), ma anche effetti collaterali assai minori rispetto alle precedenti terapie antivirali, date le modalità di somministrazione mono-settimanale e non a giorni alterni come in precedenza. Va ricordato che tale terapia ha rappresentato lo standard of care sino a poche settimane fa e che solo l’arrivo dei nuovi antivirali diretti sta in questi giorni modificando gli approcci terapeutici all’epatite cronica HCV-correlata.
Non può nemmeno essere ammessa come giustificazione per questo atteggiamento negligente la positività degli autoanticorpi ANA e l’eventuale timore di scatenamento da parte dell’interferone di epatite autoimmune, sia perché tale positività era molto bassa (1:80) e quindi aspecifica, sia perché era probabilmente indotta dallo stesso virus HCV, sia infine perché le linee guida non controindicano l’uso dell’interferone nei pazienti HCV positivi con bassa positività autoanticorpale. Inoltre, la conoscenza della positività degli ANA può costituire addirittura un’aggravante, in quanto anche il solo dubbio di trovarsi di fronte ad una possibile epatite autoimmune sovrapposta a quella da HCV avrebbe imposto l’immediata effettuazione della biopsia epatica. Nonostante l’evidenza del quadro epatologico e l’opportunità di affrontare una volta per tutte il problema dell’epatite da HCV da cui il D. era affetto, non risulta dalla documentazione fornita alcun allarme né alcuna specifica raccomandazione al paziente.
Soltanto un anno dopo (26 maggio 2007) e dopo numerosi altri accessi alla stessa ULSS per svariati motivi ortopedici, il paziente veniva finalmente sottoposto a visita infettivologica, richiesta dai sanitari del PS cui il paziente si era nuovamente rivolto per il peggioramento degli edemi agli arti inferiori. La consulenza infettivologica riferiva: “pz con epatite C cronica e crioglobulinemica […]”, riportando poi alcuni dati obiettivi e soggettivi, quali edemi degli arti inferiori e dolore intenso alla gamba dx; veniva quindi consigliato di effettuare visita Reumatologica e veniva prescritta terapia con Seleparina 8000UI s.c. ed antibiotici (Ciproxin 500 mg 1 cp x 2 e Augmentin 1 cp x 2).
Incredibilmente non fu data alcuna raccomandazione epato-infettivologica, per cui il paziente ancora una volta non veniva messo al corrente dell’importanza della sua situazione epatica e della possibilità di avviare percorso diagnostico e terapeutico antivirale.
Esami di laboratorio effettuati in data 11 giugno 2007 confermavano la presenza di ANA e indicavano anche la positività di Anticorpi ENA (positivo per SSB) e ANCA. Il 3 luglio 2007, durante un’ennesima visita specialistica, veniva posta diagnosi di “possibile vasculite leucocitoclastica gamba dx” e veniva indicata terapia con cortisone (Medrol 16 mg ½ cp al giorno per 10 giorni, poi a scalare) e Ceftriaxone i.m. per 7 giorni. In tale occasione l’epatite C non veniva neppure menzionata e non veniva neppure presa in considerazione la possibilità che la vasculite non fosse altro che un epifenomeno di tale infezione.
Passarono inutilmente altri 5 mesi e in data 28 dicembre 2007 il paziente tornava presso il pronto soccorso della stessa ULSS per dolori addominali. Il consulente chirurgo non rilevava, all’atto della sua osservazione, la presenza di sintomatologia dolorosa addominale, ma evidenziava però il fatto che si trattava di paziente con epatopatia HCV correlata.
Nel febbraio del 2008 arrivava finalmente il primo ricovero ospedaliero in ambito internistico effettuato presso l’U.O. di Medicina Generale e Reumatologia durante il quale il paziente veniva sottoposto a numerosi accertamenti tra cui: Ecografia addominale, Ecografia dei grossi vasi, RMN dell’addome, Angio-RMN dell’addome, Densitometria ossea, Biopsia cutanea, Angiografia dei rami dell’ aorta, etc. Veniva inoltre identificato il genotipo del virus (HCV-4) e determinata la viremia (174.200 IU/ml).
Il 4 marzo 2008 veniva annotato: “si prendono contatti con gli infettivologi per eventuale terapia con interferone”.
Il 25 marzo 2008 veniva scritto in diario clinico: “ha eseguito visita oculistica che non rileva controindicazioni all’utilizzo di interferone”.
La consulenza infettivologica confermava la presenza di epatite da HCV e per la prima volta furono discussi con il paziente gli effetti collaterali del trattamento antivirale, i risultati attesi e quindi l’opportunità di intraprendere un trattamento con Interferone e Ribavirina, che peraltro non venne iniziata. La consulenza concludeva con: “[…] da rivalutare con nuova biopsia epatica”.
Veniva effettuata una consulenza gastroenterologica che segnalava: Vasculite HCV correlata attualmente con ALT normali, genotipo 4, pregressa istologia epatica 2003 con fibrosi grado 3. Consigliata rivalutazione ambulatoriale.
Il paziente veniva sottoposto anche a visita psichiatrica, che concludeva che il tono dell’umore non richiedeva un trattamento farmacologico con antidepressivi.
Il 17 marzo 2008 veniva richiesta una visita Nefrologica per rivalutazione per avvio terapia con ciclosporina in paziente con vasculite; la visita specialistica concludeva “l’interessamento renale è modesto […] il quadro è suggestivo per una crioglobulinemia HCV correlata […] prima di procedere con la terapia proposta […] potrebbe essere utile una biopsia renale”.
Durante il ricovero il paziente veniva trattato con Mesalazina, Medrol, inibitori di pompa protonica e veniva iniziata la Ciclosporina, potente immunosoppressore.
Il paziente veniva dimesso in data 28 marzo 2008 con diagnosi di Sindrome vasculitica verosimilmente associata ad epatite cronica da HCV e con terapia a base di Medrol 16 mg ½ cpr/die, Sandimmun Neoral 150 mg x 2, Esopral, Dibase, Asacol.
Dopo meno di due mesi (04 maggio 2008) veniva nuovamente ricoverato presso lo stesso reparto per l’esecuzione della programmata biopsia epatica e per una rivalutazione diagnostico-terapeutica della nota vasculite, probabilmente HCV correlata. La biopsia epatica veniva effettuata il 15 maggio 2008.
La funzione renale durante questo ricovero risultava nella norma (creatininemia 0.8 mg/dL) e il paziente proseguiva il trattamento con Sandimmun.
In data 16 maggio 2008 viene annotato: Sandimmun Neoral passa a 200 mg la mattina e 150 mg la sera; tale dicitura veniva modificata in data 23 maggio 2008 come segue: “si prosegue con il dosaggio attuale della ciclosporina (dosaggio eseguito ha rilevato valori compatibili con range terapeutico)”.
Il paziente veniva dimesso in data 28 maggio 2008 con diagnosi di “Sindrome vasculitica verosimilmente associata ad epatite cronica da HCV” e con indicazione a proseguire la terapia con Ciclosporina 150 mg x 2, cortisone e mesalazina.
In data 09 giugno 2008 perveniva il referto della biopsia epatica che mostrava chiaramente il quadro dell’epatite cronica HCV correlata “infiammazione portale, lieve necrosi della lamina limitante (grado 2), attività lobulitica con necrosi focale, lieve fibrosi di alcune vene centro lobulari”. A seguito di tale referto non veniva tuttavia iniziata alcuna terapia antivirale, nonostante la persistenza del quadro vasculitico con segni di progressiva polineuropatia sensitivo-motoria degli arti inferiori.
Trascorreva quindi un altro anno, durante il quale il paziente effettuava varie visite ed accertamenti specialistici (oculistica, neurologica, EMG degli arti inferiori, etc), ma non veniva affrontato il problema dell’epatite cronica da HCV.
Nell’aprile del 2009 il paziente veniva sottoposto a valutazione della stiffness epatica tramite Fibroscan (elastografia epatica), metodica non invasiva in grado di esaminare il grado di fibrosi epatica attraverso la determinazione della rigidità del parenchima epatico; il risultato ottenuto dimostrava la presenza di fibrosi F2 (si distinguono 4 gradi di fibrosi, da F1 a F4). Nello stesso periodo veniva nuovamente determinata la carica virale, che appariva elevata (HCV-RNA: 1.384.597 UI/ml), mentre le transaminasi rimanevano al di sopra dei valori normali (ALT: 160); veniva anche confermato il genotipo del virus (genotipo 4c-4d).
Il paziente proseguiva la terapia steroidea, che però non si rivelava in grado di rallentare il decorso clinico della vasculite, ma che al contrario si aggravava con la comparsa di un’ulcera a livello del III inferiore della gamba destro.
Il 21 gennaio 2010 veniva effettuata nuova visita Nefrologica nel corso della quale veniva diagnosticata: insufficienza renale cronica in crioglobulinemia da epatopatia HCV-correlata. Gli indici di funzionalità renale sono migliorati dopo riduzione del dosaggio della ciclosporina […] ed è pertanto da ritenere probabile una precedente tossicità da ciclosporina. Consiglio valutazione per puntualizzazione della terapia immunosoppressiva. Attualmente in terapia con Sandimmun Neoral 50 mg 1 cp x 2, Asacol 2 cp x 2, Esopral 1 cp, Medrol 4 mg, Micardis Plus 80 1 cp.
L’ 11 giugno 2011 il paziente veniva ricoverato presso il reparto di Medicina per peggioramento di insufficienza renale cronica, iperpotassiemia, artrite reumatoide, HCV+.
Presentava ora elevati livelli di creatininemia (2.75 mg/dl), di kaliemia (6.0 mg/dl) e di azotemia (105 mg/dl). Nel corso del ricovero veniva trattato con Furosemide, cortisone, inibitori di pompa, antipertensivi ed in data 16 giugno 2011 veniva apposta sul diario clinico la seguente nota: non è da escludere che la ciclosporina sia stata utilizzata per la crioglobulinemia con possibile danno renale e che non sia la causa dell’insufficienza renale.
Da evidenziare che un’Ecografia addominale effettuata durante questo ricovero evidenziava l’aumento delle dimensioni della milza (DL: 14 cm), probabile espressione di incipiente ipertensione portale; tale splenomegalia non era stata rilevata all’Ecografia effettuata nel 2008. Veniva inoltre confermata la presenza di litiasi della colecisti (nota dal febbraio del 2010). La carica virale risultava di 678.649 UI/ml.
In data 21 giugno 2011 il paziente veniva trasferito presso il reparto di Nefrologia dello stesso Ospedale con diagnosi di Insufficienza renale in progressione in possibile crisi crioglobulinemica da epatite cronica attiva HCV-correlata, colelitiasi, cardiopatia ipertensiva. Si legge nella relazione di trasferimento: il paziente riferisce non vi sia stata alcuna indicazione alla terapia con interferone e poi: il paziente riferisce di aver assunto per 3 anni ciclosporina poi sospesa per tossicità renale. Il paziente in quel momento era in terapia con FANS (ibuprofene), antipertensivi, steroidi, inibitori di pompa, Furosemide, Cefalosporine.
Gli esami biochimici effettuati in Nefrologia evidenziavano l’incremento della creatininemia (2.91 mg/dl) e dell’azotemia (118 mg/dl), nonché un’anemizzazione (Hb: 9.2 g/l) e un’importante proteinuria (10 g/die). Il paziente veniva anche sottoposto a consulenza chirurgica che ipotizzava l’effettuazione di un intervento chirurgico di colecistectomia per litiasi della colecisti. Venivano effettuate emocolture che rivelavano la crescita di Staphilococcus Xylosus. Nel corso del ricovero si evidenziava il progressivo calo ponderale, il miglioramento degli edemi declivi e la progressiva defervescenza.
Il 14 luglio 2011 il D. veniva sottoposto a biopsia renale, il cui referto deponeva per un quadro di glomerulonefrite membrano-proliferativa verosimilmente crioglobulinemica ed HCV correlata.
La TAC dell’addome evidenziava l’epatomegalia, la presenza di numerosi calcoli in colecisti discretamente distesa in assenza di dilatazione delle vie biliari intraepatiche. Un’ulteriore consulenza chirurgica effettuata in data 18.07.2011 sconsigliava l’effettuazione della colecistectomia alla luce dell’epatopatia da HCV e dell’assenza di sintomatologia biliare.
Una gastroscopia effettuata il 20 luglio 2011 escludeva la presenza di varici esofagee.
Il 21 luglio 2011 il paziente veniva dimesso con diagnosi di “Insufficienza renale cronica e sindrome nefrosica in paziente con epatopatia HCV correlata”.
Nell’autunno del 2011 il paziente iniziava finalmente la terapia con PEG-interferone, ma senza la Ribavirina a causa dell’insufficienza renale, con riduzione della clearence della creatinina.
Purtroppo la valutazione della viremia alla XII settimana di trattamento non evidenziava alcuna riduzione della stessa, né la negativizzazione della replicazione virale.
Il 21 novembre 2011 il paziente veniva nuovamente ricoverato presso in reparto di Medicina per la comparsa di diabete mellito. I dati di laboratorio all’ingresso mostravano glicemia estremamente elevata (> 400 mg/dl), creatininemia: 2.38 mg/dl, ALT: 99 UI/dl. È di particolare rilievo il fatto che gli esami strumentali diretti alla valutazione dell’epatopatia dimostravano ormai parametri indicativi di evoluzione della stessa verso la cirrosi epatica (Ecografia dell’addome: vena porta 15 mm; RMN dell’addome: ipertrofia del caudato).
Il paziente venne dimesso il 5 dicembre 2011 con terapia a base di antipertensivi, Furosemide, steroidi, Allopurinolo, inibitori di pompa, insulina pronta + retard, proseguendo il trattamento antivirale con PEG-interferone alle dosi di 270 mcg a settimana; dopo 1 mese (gennaio 2012) veniva però nuovamente ricoverato in a causa della ricomparsa di edemi declivi in sindrome nefrosica.
L’attuale condizione presentava evidente peggioramento con stato anasarcatico, creatininemia di 3.40 mg/dl, ALT di 243 e GGT di 1799. Si decideva pertanto di trasferire il paziente presso il reparto di Nefrologia (10 gennaio 2012).
Nel corso del ricovero si presentarono numerose complicazioni quali: epistassi, dolore in ipocondrio destro con Murphy positivo, leucocitosi neutrofila, persistente e rilevante incremento delle GGT (1321 UI/dl), incremento ponderale con aumento degli edemi declivi, anemia trattata con emotrasfusione; veniva inoltre sottoposto ad emodialisi.
Dopo un breve ricovero presso il reparto di ORL per epistassi, il paziente ritornava presso la Nefrologia (31 gennaio 2012) dove proseguiva la terapia e veniva sottoposto a RMN dell’addome che confermava la presenza di litiasi della colecisti in assenza di dilatazione delle vie biliari intraepatiche e del coledoco. L’ennesima consulenza chirurgica poneva nuovamente l’indicazione all’effettuazione dell’intervento di colecistectomia in elezione.
Il 17 febbraio 2012 il paziente veniva dimesso con diagnosi di “Insufficienza renale cronica da glomerulonefrite cronica in paziente con epatopatia HCV correlata, colecistite con calcolosi”.
Il 02 marzo 2012 veniva eseguita una seconda biopsia epatica che evidenziava la presenza di una “epatite cronica a basso grado di attività con fibrosi portale. HAI 5, S I”. In questo periodo era stata sospesa la terapia antivirale con PEG-Interferone per la mancata risposta virologica.
Dopo pochi giorni (14 marzo 2012) veniva effettuato un ulteriore ricovero presso il reparto di Medicina per anasarca, sindrome nefrosica, glomerulonefrite membrano-proliferativa, crioglobulinemia in fase attiva, epatopatia HCV correlata, diabete mellito in terapia insulinica, litiasi biliare. Durante il ricovero il paziente proseguiva le sedute dialitiche e venivano rilevati notevoli e progressivi incrementi della bilirubinemia (totale: 11.29 mg/dl), delle GGT (> 5000 UI/dl), delle lipasi (419 mg/dl) e dei GB (20.300/mmc), mentre compariva una febbre settica preceduta da brivido scuotente. Venne quindi rimosso il catetere venoso centrale, venivano effettuate 3 emocolture (risultate negative), veniva effettuata una paracentesi con esame del liquido ascitico (risultato negativo), proseguiva le sedute dialitiche e veniva sottoposto a consulenza chirurgica e nefrologica. La visita chirurgica poneva stavolta la diagnosi di colecistite acuta litiasica recidiva, ponendo nuovamente indicazione alla colecistectomia video-laparoscopica, che veniva effettuata in data 18 marzo 2012.
Nei giorni successivi si aveva un lento miglioramento dei valori degli enzimi epatici e di quelli della bilirubinemia. Le sedute dialitiche venivano proseguite e veniva effettuata una colonscopia per la comparsa di diarrea persistente (sospetta rettocolite aspecifica). La ricerca dell’HIV diede esito negativo.
In data 24 maggio 2012 il paziente veniva trasferito dal reparto di Medicina al reparto di Lungodegenza dello stesso nosocomio, dal quale veniva poi dimesso in data 20 luglio 2012 con diagnosi di “sindrome da allettamento, colecistectomia, glomerulonefrite proliferativa, epatopatia HCV correlata, insufficienza renale cronica, diabete mellito tipo 2, sepsi da stafilococco epidermidis su catetere venoso centrale”.
Vagliato il caso si ritenne di procedere alla richiesta di risarcimento in quanto gli esiti erano assolutamente addebitabili a imprudenza e negligenza dei sanitari che l’avevano curato per quanto di seguito si espone.
Riassumendo, il sig. D. era affetto da epatite cronica da HCV, con presenza di crioglobulinemia. E’ ben noto che la crioglobulinemia mista essenziale (CME) rappresenta la principale manifestazione extra -epatica dell’ HCV, ed il rapporto di causalità virus-crioglobuline viene oggi riconosciuto come certo e documentato. Le crioglobuline sono delle immunoglobuline caratterizzate dalla precipitazione a temperature inferiori a 37°, con ridissoluzione dopo il riscaldamento del siero.
La CME è una vera malattia che complica il decorso della infezione da HCV, caratterizzandosi come patologia da immunocomplessi circolanti, la cui produzione appare secondaria a proliferazione dei linfociti B, indotta dallo stesso HCV.
Principali conseguenze della CME in pazienti affetti da HCV sono appunto vasculiti leucocitoclastiche, porpora, ulcere cutanee anche di severa entità, glomerulo nefrite membrano proliferativa, neuropatie periferiche, astenia, artralgie, dolori addominali.
Coesiste positività del fattore reumatoide, mentre la ricerca delle crioglobuline può talora essere negativa sia per errato prelievo (indispensabile l’uso di provette preriscaldate), sia il carattere fluttuante delle stesse. In caso di CME in corso di infezione da HCV la terapia, se effettuata prontamente, può essere in grado di modificare significativamente la storia naturale della malattia, ovvero di rallentarne in misura rilevante il decorso.
Tale terapia si basa innanzitutto sulla eliminazione della causa primaria, ovvero dell’infezione da HCV. Anche se talora la eradicazione della infezione virale non è seguita da pronta remissione della sintomatologia extra epatica, ogni paziente HCV positivo con manifestazioni epatiche o extra epatiche deve essere prontamente trattato con interferone e ribavirina sin dal momento della prima osservazione.
A questo trattamento che definiremo eziologico della CME, volto cioè all’eliminazione del fattore causale quindi il virus C, può affiancarsi la terapia antinfiammatoria, in contemporanea o in successione. Detto approccio si basa soprattutto sulla somministrazione di steroidi, mentre la somministrazione di citostatici viene consigliata secondo le linee guida della Associazione Italiana per lo Studio del Fegato (AISF), utilizzando chlorambucil, ciclofosfamide o azatioprina. Grande cautela deve essere posta all’ uso della ciclosporina, la cui reale efficacia è ancora oggi posta in dubbio e che potrebbe indurre o far precipitare il danno renale.
Per il sig. D.M. almeno due sono gli aspetti da considerare:
1. Il paziente presentava lunghissima storia di epatite cronica da HCV, ma non risulta che tra il 2000 e il 2006 il problema sia stato mai affrontato e che il paziente sia stato reso edotto della possibilità di effettuare terapia antivirale. Nel maggio 2006 il paziente si rivolse alle strutture della ULSS di appartenenza in quanto aveva rilevato la presenza di una “macchia” in corrispondenza degli arti inferiori. Il paziente riferiva di essere HCV positivo, erano presenti crioglobuline, le ALT erano elevate (205 IU/dL), per cui riesce difficile comprendere come mai non si sia provveduto all’immediata valutazione del danno epatico con biopsia epatica ecoguidata, alla definizione dello status virologico del paziente tramite determinazione del genotipo dell’HCV e della viremia quantitativa (HCV RNA sierico, espressione della replicazione virale) e al conseguente avvio di un programma terapeutico antivirale. Come ricordato in precedenza, nel 2006 era già disponibile il nuovo interferone peghilato, a somministrazione mono settimanale, che associato all’altro antivirale ribavirina poteva garantire discrete percentuali di successo virologico anche nei genotipi cosiddetti difficili come quello del sig. D. (HCV 4c-4d), anche se non eccellenti. Dopo un anno (maggio 2007) una consulenza infettivologica riportava “pz con epatite C cronica e crioglobulinemica”, registrava alcuni dati obiettivi e soggettivi, quali edemi arti inferiori, dolore intenso gamba dx, ma ancora una volta non venne chiaramente posta alcuna raccomandazione terapeutica, per cui il paziente ancora una volta non fu messo al corrente della importanza della situazione epatica e della possibilità di avviare percorso diagnostico e terapeutico antivirale. Bisogna arrivare al giugno 2008 perché finalmente venga effettuata la biopsia epatica ed all’ aprile 2009 perché finalmente si decida lo studio virologico con valutazione della viremia quantitativa e del genotipo HCV, ma ancora una volta venne omesso il trattamento eziologico antivirale, che sarà iniziato solo nel novembre 2011, cioè con un ritardo di oltre cinque anni rispetto alla prima osservazione. A quel punto era probabilmente troppo tardi per sperare di poter eradicare l’infezione HCV, sia a causa del genotipo considerato “difficile” (HCV 4), sia soprattutto perché il paziente presentava il quadro conclamato della insufficienza renale causata dalla glomerulonefrite membrano-proliferativa da crioglobuline, il che comportò la necessità di rinunciare alla ribavirina, dati i valori elevati di creatininemia ed i ridotti valori di GFR. Va ricordato che l’aggiunta della ribavirina all’interferone esalta notevolmente l’efficacia terapeutica del trattamento, mentre la somministrazione del solo interferone in monoterapia è seguita da una ridottissima percentuale di risposta virologica sostenuta (SVR), soprattutto nei genotipi HCV 1 e 4. Ciò non si sarebbe probabilmente verificato se la terapia antivirale fosse stata prescritta cinque anni prima, quando il paziente non presentava ancora la grave insufficienza renale che si venne a sviluppare successivamente.
2. La seconda obiezione riguarda l’uso della ciclosporina, iniziata nel maggio 2008 a dosaggi piuttosto elevati. Si trattava di posologia eccessiva, tanto più che le stesse avvertenze del produttore raccomandano “Sandimmun Neoral può alterare la funzione renale, per cui devono essere trattati solo pazienti con funzione renale nella norma”. Non si comprende in verità la necessità dell’aggiunta della ciclosporina, anche in considerazione del fatto che il paziente era già in terapia con steroidi. Ove fosse stata ritenuta necessaria una integrazione alla terapia steroidea, si poteva forse ricorrere ad altri immunosoppressori, quali azatioprina o ciclofosfamide a dosaggi ridotti. Si riportano qui di seguito le indicazioni espresse circa la terapia della crioglobulinemia mista essenziale dalla già citata Commissione AISF “Le manifestazioni extraepatiche del virus della Epatite C”: “I farmaci citostatici-immunosoppressori, sono stati più comunemente usati nei casi di mancata risposta ai cortisonici. Il razionale del loro uso nella crioglobulinamia di tipo I (cioè con evidente patologia linfoproliferativa di tipo monoclonale) e II consisterebbe nella loro azione citolitica sui cloni B linfocitari. Vengono oggi consigliati essenzialmente nelle fasi acute della MCS (es. in caso di nefrite acuta che evolve verso l’uremia, di sindrome da iperviscosità in associazione alla plasmaferesi o nei LNH in fase conclamata). I farmaci citostatici più comunemente usati sono la ciclofosfamide, il clorambucil e l’azatioprina. Generalmente anche il loro uso è gravato da non trascurabili effetti collaterali, ivi compreso una progressione della malattia secondaria al rilevante effetto immunosoppressivo. Caso a parte è rappresentato dalla ciclosporina che è stata da taluni autori utilizzata in forme particolarmente resistenti alla terapia. La reale efficacia della ciclosporina e le modalità della sua somministrazione rimangono peraltro molto discusse”. Non sembra casuale che nel gennaio 2010 un consulente nefrologo dell’Ospedale di C. scrivesse “insufficienza renale cronica in crioglobulinemia da epatopatia HCV correlata. Gli indici di funzione renale sono migliorati dopo riduzione del dosaggio della ciclosporina […] ed è pertanto da ritenere probabile una precedente tossicità da ciclosporina”. Per quanto riguarda invece la terapia delle complicanze renali da HCV, la stessa commissione AISF suggeriva: “Nelle forme in cui il danno renale si manifesta come glomerulonefrite membranoproliferativa o glomerulonefrite membranosa, la decisione di trattare con una terapia specifica (steroidi associati a immunosoppressori) è affidata alla gravità del quadro clinico ed all’attitudine del centro di Nefrologia”. Infatti la terapia di queste due forme istologiche nella loro variante idiopatica è molto controversa. Inoltre le evidenze di efficacia di terapie immunosoppressive non sono affatto robuste. Pertanto in questi casi si può procedere con un trattamento conservativo volto a controllare la ritenzione idrica con diuretici e dieta iposodica, ridurre la proteinuria con ACE inibitori, migliorare l’assetto lipidico con dieta e statine. Quindi la terapia delle manifestazioni renali associate all’infezione HCV è essenzialmente la terapia della MCS. Questa si compone di una terapia della fase acuta della nefropatia crioglobulinemica, quando la malattia si manifesta con porpora, insufficienza renale, manifestazioni sistemiche e una terapia della fase cronica. Nella fase acuta della malattia renale è in genere consigliato che il trattamento antivirale venga sospeso od evitato.
A prescindere dai limiti esposti sopra, di fatto in queste fasi la maggior parte dei Nefrologi impiega abitualmente una terapia combinata così articolata:
• Steroidi: boli di 500-1000 mg di metilprednisolone al giorno per 3 giorni consecutivi seguita da prednisone per 6 mesi (inizialmente 0,5 mg/kg, da ridurre nel corso di poche settimane fino ad una dose minima di mantenimento – in genere non più di 10 mg);
• Ciclofosfamide: 2-3 mg/kg per 3-4 mesi;
• Plasmaferesi (nei casi con grave insufficienza renale): scambi di 3 litri di plasma per 3 volte alla settimana per 2 o 3 settimane o fino alla remissione.
Il razionale è quello di ridurre l’attività infiammatoria delle lesioni renali con lo steroide, di rimuovere le crioglobuline circolanti con la plasmaferesi e ridurre la formazione di nuovi anticorpi con la ciclofosfamide. La maggior parte delle esperienze cliniche riportate in letteratura limita l’impiego della plasmaferesi per brevi periodi durante la fase di acuzie della malattia, ma sono descritte anche casistiche in cui l’impiego della plasmaferesi è stato protratto con sedute ad intervalli regolari fino a 24 mesi. Lo schema di terapia della fase acuta della CM non è stato formalmente testato con studi clinici controllati, che sono difficili da attuare data la gravità del quadro clinico, mentre sono disponibili numerosi resoconti aneddotici che dimostrano la sua efficacia a breve e lungo termine, tanto che è diventata prassi clinica accettata. Questo nonostante steroidi e ciclofosfamide possano essere dannosi in quanto possono aumentare la carica virale e peggiorare la malattia del fegato. Tuttavia, in un gruppo di più di 50 pazienti trattati con questo schema non sono state riportate significative variazioni della malattia epatica. Più complesso è il problema del trattamento a lungo termine delle forme acute che siano state controllate con la terapia sopra descritta e la terapia delle forme con modesti segni di danno renale. In genere un mantenimento di piccole dosi di steroidi è seguito da molti centri, ma c’è la preoccupazione che una terapia prolungata attivi la replicazione virale. Nelle forme con segni di attività molto modesti (per esempio microematuria senza insufficienza renale, e senza sintomi sistemici) può essere raccomandata una terapia conservativa senza farmaci attivi sul sistema immune, basata su un rigoroso controllo della pressione arteriosa con ACE inibitori e diuretici, dieta iposodica e a moderato contenuto di proteine”.
Conclusioni Medico – Legali
– si deve ritenere che il ritardo nella somministrazione della terapia antivirale con interferone e ribavirina abbia sicuramente contribuito al peggioramento della malattia epatica, al mancato controllo della crioglobulinemia ed all’ innesco della patologia renale da crioglobuline,
– si deve ritenere altresì che la somministrazione della ciclosporina possa avere accelerato, anche se non determinato (come causa esclusiva), il quadro della insufficienza renale che successivamente ha costretto il paziente alla dialisi;
– non si ritiene invece che vi siano stati errori nella decisione di sottoporre il paziente alla colecistectomia, in quel momento necessaria a causa dell’ evidente quadro di colestasi su base litiasica, con elevati livelli di bilirubinemia, di transaminasi, di GGT, ed il persistere di quadro clinico settico e doloroso.
Allo stato attuale il paziente di anni 43, risulta affetto da “ESDR secondaria a glomerulonefrite membrano-proliferativa associata a crioglobulinemia in epatite cronica HCV-correlata in trattamento dialitico e sindrome depressiva cronica” in lista per trapianto di reni.
Veniva avanzata una richiesta di maggior danno pari al 70%.
Prof. Claudio Puoti