È legittimo il licenziamento del lavoratore adibito alla mansione di conducente di autobus che faccia abituale consumo di sostanze stupefacenti

La vicenda

La Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza di prime cure, aveva annullato il licenziamento disciplinare intimato dalla società di trasporti pubblici della capitale nei confronti di un proprio dipendente, assunto con la mansione di conducente di autobus, dopo il suo arresto per detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, e aveva condannato la società a reintegrare il lavoratore e a corrispondergli l’indennità risarcitoria prevista per legge.

Per i giudici dell’appello i fatti in relazione ai quali il dipendente era stato tratto a giudizio, con procedimento conclusosi con una sentenza di patteggiamento, non potevano essere qualificati in termini di specifica gravità tali da giustificare il licenziamento.

La corte capitolina aveva inoltre, ritenuto non applicabile alla fattispecie in esame, il disposto di cui all’art.653 c.1 bis c.p.p. secondo cui la sentenza penale irrevocabile, e quindi, quella di patteggiamento ad essa equiparata, ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità; ciò in quanto non si verteva in tema di rapporto di lavoro di pubblico impiego o di rapporto ad esso equiparato. Ed inoltre, pur muovendo dalla considerazione che il lavoratore fosse abituale consumatore di stupefacenti, aveva osservato come tale dato non potesse costituire presupposto logico-giuridico su cui fondare l’accusa di detenzione a fini di spaccio, ostando a tale conclusione una serie di elementi fattuali di natura indiziaria.

Il ricorso per cassazione

La vicenda è giunta in Cassazione su ricorso della società datrice di lavoro, a detta della quale la corte di merito, nell’esaminare i fatti oggetto di contestazione, non aveva fatto “corretta applicazione delle norme poste a base del recesso, non considerando che la condotta posta in essere dal lavoratore era stata tale da aver irrimediabilmente leso il vincolo di fiducia, visto anche l’obiettivo disvalore del fatto contestato”.

In altre parole, la ricorrente si doleva del fatto che il giudice del gravame, nel valutare il requisito della specifica gravità del fatto, avesse tralasciato di considerare un fatto decisivo e già accertato nel processo penale a suo carico, ossia la detenzione da parte del conducente di autobus di sostanze stupefacenti a fini di spaccio.

Ebbene, la Corte di Cassazione (Sezione Lavoro, sentenza n. 5897/2020) ha accolto il ricorso perché fondato.

La giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato il principio secondo il quale la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. ben può essere utilizzata come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile, atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità e accetta una determinata condanna, chiedendone o consentendone l’applicazione, il che sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto di non contestare il fatto e la propria responsabilità (Cass. 18/12/2017 n. 30328, Cass. 5/5/2005 n.9358).

La sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione; detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile (vedi Cass. cit. n.30328/2017).

In quest’ottica, i giudici di merito avrebbero dovuto ritenere dimostrati i fatti storici accertati con la sentenza penale di condanna e la loro idoneità ad acquisire rilevanza in sede disciplinare.

Del resto, in tal senso appaiono significativi anche i recenti approdi ai quali è pervenuta la giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato il principio secondo cui viola certamente il “minimo etico” la condotta extralavorativa di consumo di sostanze stupefacenti ad opera di un lavoratore adibito a mansioni di conducente di autobus, definite “a rischio”, a prescindere dal mancato riferimento, nell’ambito del r.d. n.148 del 1931, alla descritta condotta (Cass. 24/5/2018 n.12994).

Per tutte queste ragioni, la Corte ha accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione, per un nuovo giudizio.

La redazione giuridica

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