Una sentenza della Cassazione ha fornito chiarimenti sui rischi che comporta per il lavoratore copiare su una chiavetta usb dei file aziendali

Si può considerare legittimo il licenziamento del lavoratore che decide di copiare su una chiavetta usb dei file aziendali?
A riguardo, si è espressa la Cassazione con la sentenza n. 25147 del 24 ottobre 2017.
Per i giudici, la condotta del lavoratore che decide di copiare su una chiavetta usb dei file aziendali, viola il dovere di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.
Nel caso di specie, la Corte d’appello di Perugia – riformando la sentenza di primo grado – aveva ritenuto legittimo il licenziamento che era stato intimato da una azienda chimica nei confronti di un dipendente. Le domande di risarcimento di quest’ultimo erano state rifiutate.

Secondo la Corte d’appello, in particolare, la condotta tenuta dal lavoratore – che aveva deciso di copiare su una chiavetta usb dei file aziendali – di fatto integrava la fattispecie prevista dall’art. 52 del contratto collettivo dei dipendenti delle aziende chimiche, sanzionata con il licenziamento.

Il dipendente però, ha deciso di ricorrere in Cassazione, per ottenere l’annullamento della sentenza.
A sostegno delle proprie ragioni, il dipendente sosteneva che la Corte d’appello non aveva dato corretta applicazione all’art. 2106 c.c. e all’art. 7 della legge n. 300 del 1970.
Non solo. La Corte avrebbe anche dovuto tenere in considerazione la circostanza secondo cui “uno dei fatti oggetto della contestazione di addebito da cui era scaturito il successivo licenziamento – la divulgazione a terzi dei dati archiviati nella pen drive – era risultato insussistente”.
Inoltre, sempre secondo il ricorrente, era errato pensare che l’aver semplicemente copiato i dati equivalesse a renderli pubblici e disponibili a terzi.
Infine, non era nemmeno stato provato che i file copiati “contenessero dati particolarmente protetti”, dal momento che, dagli accertamenti tecnici effettuati in corso di causa, “era risultato che i dati trasferiti non erano neppure protetti da password”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, ha rigettato il ricorso del dipendente ritenendolo infondato.
Infatti, ai fini del perfezionamento dell’infrazione sanzionata con il licenziamento, “non era essenziale l’avvenuta divulgazione a terzi dei dati”.

Per la Cassazione era infatti sufficiente essendo “la mera sottrazione dei dati stessi”.

Inoltre per i giudici era irrilevante “che i dati sottratti fossero o meno protetti da specifiche password”.
Senza contare che “la circostanza che per il dipendente l’accesso ai dati fosse libero non lo autorizzava ad appropriarsene creandone copie idonee a far uscire le informazioni al di fuori della sfera di controllo del datore di lavoro”.
Pertanto, i giudici hanno ricordato che la condotta del dipendente violasse il “dovere di fedeltà”, di cui all’art. 2105 c.c..
Un dovere che “si sostanzia nell’obbligo del lavoratore di astenersi da attività contrarie agli interessi del datore di lavoro, tali dovendosi considerare anche quelle che, sebbene non attualmente produttive di danno, siano dotate di potenziale lesività”.
Il ricorso è stato pertanto rigettato. La Cassazione ha confermato integralmente la sentenza impugnata e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 
 
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