Respinto il ricorso di un consulente tecnico di parte accusato di aver offeso, nella sua relazione, il CTU con l’utilizzo di espressioni inutilmente denigratorie e gratuitamente infamanti

Nella relazione redatta quale consulente di parte in una causa civile e, segnatamente, nelle osservazioni alla consulenza tecnica d’ufficio, aveva offeso la reputazione del CTU. Il perito, pertanto, era stato condannato in sede di merito per il reato di diffamazione aggravata.

Nel ricorrere per cassazione l’imputato denunciava erronea applicazione della legge e vizi di motivazione. La conferma dell’affermazione di responsabilità – a suo dire – non era infatti derivata dalla riscontrata falsità delle conclusione dell’imputato, ma solo dalla severità, ritenuta eccessiva e quindi denigratoria, del linguaggio impiegato, laddove l’atto di appello aveva sottolineato come le osservazioni del ricorrente fossero consistite in rilievi tecnico-scientifici e avessero investito, con pari efficacia critica, sia il versante delle cognizioni medico-legali, sia il concreto modus procedendi del CTU, non potendo fare a meno di constatare l’assenza di specializzazione della parte offesa in settori della medicina che avrebbero dovuto essere compiutamente governati dal consulente del giudice.

La perentorietà della terminologia impiegata doveva quindi essere valutata in rapporto di proporzione diretta con la gravità della omissione e/o dell’inesattezza riscontrata.

Come evidenziato dall’atto di appello, il consulente del giudice si era avvalso di una guida orientativa superata, della quale aveva peraltro travisato le indicazioni anche in merito alla quantificazione della percentuale del danno, per di più omettendo di considerare gli esiti anatomici radiologicamente rilevabili (ossia i postumi delle fratture vertebrali) ai fini della valutazione del danno biologico da invalidità permanente. L’attendibilità della critica all’elaborato del consulente non poteva essere disgiunta dalla valutazione della sua preparazione professionale, sicché l’imputato aveva agito al solo scopo di rimarcare l’erroneità e la fallacia delle conclusioni peritali e la terminologia impiegata, lungi dall’essere stata finalizzata, in via principale o anche solo prevalente, alla denigrazione o alla ridicolizzazione del consulente d’ufficio, era sempre rigorosamente agganciata alla critica svolta al suo operato e non certo alla sua persona.

La motivazione della sentenza impugnata era illogica lì dove non aveva considerato che il richiamo dell’imputato all’incompetenza del consulente d’ufficio in certi rami della scienza medica era impiegato per avvalorare, con maggiore forza ed incisività, le critiche al suo operato, ossia i plurimi vizi ravvisati nelle conclusioni e nel carattere inappropriato, anche sotto il profilo deontologico, del suo comportamento.

Il CTU, in particolare, senza ricorrere all’ausilio di specialisti, aveva preferito avventurarsi in valutazioni diagnostiche che solo uno specialista del settore avrebbe avuto piena legittimazione ad esprimere.

L’atto di appello aveva evidenziato che i rilievi mossi alla competenza del consulente d’ufficio in certi rami della medicina non erano mai stati disgiunti dalla critica, pur aspra e sferzante, alle valutazioni espresse proprio con riferimento alle discipline nelle quali egli era sprovvisto di specializzazione, sicché non si trattava di una gratuita denigrazione della persona, ma della necessità di avvalorare le critiche all’operato del perito.

L’imputato, in conclusione eccepiva di essersi mosso nel perimetro segnato dalla consulenza tecnica d’ufficio, criticandone il contenuto e, di conseguenza, l’autore, ma senza degenerare in una gratuita e immotivata invettiva legata alla persona, trattandosi di critica sempre dettata dal radicale dissenso rispetto al modus procedendi e alle conclusioni del perito.

Quanto all’elemento del dolo, il ricorrente sottolineava che l’obiettivo delle sue affermazioni non fosse la denigrazione del consulente d’ufficio, ma l’esposizione nel modo più convincente delle proprie ragioni. Ciò avrebbe trovato ulteriore conferma nella conclamata assenza di un pregresso rapporto di conoscenza che potesse accreditare il sospetto di motivi di astio, di rancore o di inimicizia tra i due: deduzione, questa, articolata nell’appello, ma ignorata dalla sentenza del giudice di secondo grado, “che aveva confermato l’affermazione di responsabilità sulla base di una sorta di normativizzazione della responsabilità dolosa, così assimilando al dolo la semplice inosservanza di regole precauzionali”.

Per la Suprema Corte, che si è pronunciata sul caso con sentenza n. 12490/2020, il ricorso non merita accoglimento.

Gli Ermellini hanno infatti evidenziato che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di diffamazione, nella valutazione del requisito della continenza, necessario ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur se aspri, forti e sferzanti, non siano meramente gratuiti, ma siano, invece, pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere. In tema di diffamazione, dunque, il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta, ossia strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, sicché il contesto nel quale la condotta si colloca può essere valutato ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, ma non può in alcun modo scriminare l’uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest’ultimo in quanto tale.

Nel caso in esame i giudici di merito avevano sottolineato il tenore delle espressioni utilizzate dall’imputato e dei toni adoperati, indicati come esagerati, sarcastici, gratuitamente offensive, sbeffeggianti, con l’utilizzo di espressioni inutilmente denigratorie e gratuitamente infamanti.

Le diffuse doglianze del ricorrente circa il legame che dovrebbe essere instaurato tra le critiche all’elaborato e all’attività del consulente del giudice e i riferimento al suo autore non inficiavano il nucleo essenziale della ratio decidendi della sentenza impugnata, ravvisabile, ad avviso del Collegio, nel rilievo del “superamento del limite della continenza determinato dall’utilizzo di espressioni gratuitamente denigratorie, sovrabbondanti e sproporzionate rispetto alla finalità di critica tecnico-scientifica cui esse erano destinate nell’ambito della causa civile”.

Del tutto infondate, poi, erano le censure relative all’elemento soggettivo, per la cui sussistenza è sufficiente il dolo generico e che comunque implica l’uso consapevole, da parte dell’agente, di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere.

La redazione giuridica

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