Il tema del danno non patrimoniale ha animato negli ultimi anni, probabilmente più di ogni altra tematica, il dibattito della giurisprudenza

La storia del danno non patrimoniale, nel suo aspetto giuridico, diacronico e metagiuridico, è ancorata alla interpretazione dell’art. 2059 c.c., il quale limita il risarcimento nei soli casi determinati dalla legge.

Per molti anni l’orientamento “tradizionale” giurisprudenziale ha deposto per una interpretazione restrittiva dell’art. 2059 che veniva letto esclusivamente in combinato disposto con l’art. 185 c.p. Ed infatti il danno morale soggettivo veniva  riconosciuto alla vittima dell’illecito penale.

Nel segno di tale ricostruzione, il sistema della responsabilità civile si è snodato in maniera bipolare. Ovverosia, il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.  e il danno non patrimoniale “morale” risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c. se cagionato da reato.

L’erroneità di questa impostazione, che poneva l’attenzione esclusivamente sulla condotta colpevole e penalmente rilevante, è stata ben evidenziata dalla dottrina sin dagli anni 60.

La giurisprudenza non è stata dello stesso avviso e, attraverso la patrimonializzazione del danno non patrimoniale, ha cercato altre vie per allargare l’ordito della risarcibilità del danno alla persona. In particolar modo è stato considerato per molti anni il bene salute, come un bene suscettibile di valutazione economica poiché ancorato alla capacità specifica di lavoro della vittima. Tale lesione del bene salute, pertanto, diveniva risarcibile ex art. 2043 c.c. come sub specie di danno patrimoniale.

La svolta è avvenuta alla fine degli anni 70, quando la giurisprudenza ha iniziato a discorrere di un concetto di patrimonio comprendente gli elementi areddituali.

E’ stato il noto caso di Gennarino, figlio di un lustrascarpe, rimasto vittima di un incidente stradale e non risarcito, in quanto privo di un lavoro e di prospettive economiche future, a smuovere le trame di una nuova dimensione del risarcimento del danno non patrimoniale allo scopo di evitare pesanti violazioni del principio di uguaglianza.

Ed infatti già a partire dagli anni 80 si è iniziato a discorrere di danno alla vita di relazione e  di capacità di lavoro generica a prescindere dalla occupazione lavorativa specifica. Conseguentemente la lesione del bene salute  ha visto i primi risarcimenti anche a favore di minori, di casalinghe e di soggetti privi di reddito.

Percorrendo questo filone, la giurisprudenza è poi giunta a collegare l’art. 2043 c.c. con l’art. 32 cost., ipotizzando un terzo genus: il danno biologico.

Significativa, alla fine degli anni 80, la pronunzia della Corte Costituzionale (184/1986) che ha confermato nell’art. 32 cost. il fondamento del danno biologico in combinato disposto con l’art. 2043 c.c. e ha respinto l’incostituzionalità dell’art. 2059 c.c.  poiché non limitativo del diritto soggettivo alla salute e del conseguente risarcimento.

La Corte Costituzionale ha, dunque, concepito una visione tripolare della responsabilità civile evidenziando tre distinte tipologie di danno: il danno patrimoniale, il danno morale soggettivo da reato ex art. 2059 c.c. e il danno alla salute risarcibile ex art. 2043  c.c. in combinato con l’art. 32 cost.

Tale impostazione è stata seguita per oltre un decennio ed ha raggiunto l’apice nella elaborazione della figura del danno esistenziale (Cass. 7713/2000), sebbene il primo studio è da attribuire alla Scuola di Trieste.

Sono stati, poi, gli arresti epocali del 2003 della suprema Corte con le celeberrime “sentenze gemelle” a ricondurre il danno alla persona nell’ottica della lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c..

Non è più indispensabile la presenza di un fatto penalmente rilevante per avere la tutela risarcitoria dei pregiudizi non patrimoniali: è sufficiente la lesione di diritti della persona  costituzionalmente rilevanti .

Si è tornati, in tale modo, ad un sistema bipolare della responsabilità civile che vede il danno patrimoniale risarcibile ex art. 2043 c.c. e il danno non patrimoniale risarcibile ex art. 2059 c.c.

Negli anni a seguire 2003-2008 numerose e differenti scuole di pensiero, tra sostenitori e detrattori, hanno discusso animatamente sulla querelle  della controversa figura del cosiddetto danno esistenziale, sino all’intervento delle Sezioni Unite di S. Martino.  Con le note quattro sentenze gemelle del 2008, è stata nettamente smentita la figura del danno esistenziale nella sua visione autonoma, senza, comunque, smentirne la risarcibilità.

In conclusione al breve excursus storico, da segnalarsi che dopo le pronunzie di San Martino ha continuato ad esserci nella giurisprudenza di merito e di legittimità  un orientamento favorevole al riconoscimento dell’autonomia del danno morale rispetto a quello biologico. (Cass. 18641/2011; 2228/2012)

Sino ad arrivare alla recentissima pronunzia del 9 giugno 2015 (Cass. 11851/2015) ove viene sancito che il danno morale è del tutto autonomo dal danno biologico e deve essere ristorato qualora la vittima abbia accusato sofferenze interiori e alterazioni delle dinamiche relazionali.

La citata pregevole pronunzia, estensore il Consigliere Travaglino, (medesimo estensore delle citate pronunzie del 2001 e del 2012), ha posto  un muro contro lo svilimento  perpetrato dalla visione unitaria di danno non patrimoniale delle Sezioni Unite del 2008.

Vengono, infatti, richiamate più volte le pronunce a Sezioni Unite del 2008, sottolineando che nelle stesse non si è soppresso il danno morale. Ed ancora viene ribadito che “troppo spesso il mondo del diritto, intriso di inevitabili limiti sovrastrutturali che ne caratterizzano la stessa essenza, ha trascurato l’analisi fenomenologica del danno alla persona, che altro non è che indagine sulla fenomenologia della sofferenza. Il semplice confronto con ben più attente e competenti discipline (psicologiche, psichiatriche, psicoanalitche) consente (consentirebbe) anche al giurista di ripensare il principio secondo il quale la persona umana, pur considerata nella sua ‘interezza’, è al tempo stesso dialogo interiore con se stesso ed ancora relazione con tutto ciò che è altro da sé. In questa semplice realtà naturalistica si cela la risposta (e la conseguente, corretta costruzione di categorie) all’interrogativo circa la reale natura e la vera essenza del danno alla persona: la sofferenza interiore, le dinamiche relazionali di una vita che cambia”.

E’ necessario distinguere la componente morale e quella esistenziale poiché ogni lesione a un interesse tutelato dalla Carta Costituzionale ha una doppia dimensione di danno relazione  che si estrinseca all’esterno e di danno morale interiore, quale intima sofferenza.

Condivisibili le conclusioni cui è pervenuta la Corte con questa importante pronunzia, che reitera, qualora fosse ancora necessario, la legittimità dell’individuazione della doppia dimensione fenomenologica del danno, quella di tipo relazionale, e, sebbene non codificata, quella di natura interiore, lasciando libero il Giudice di quantificarla secondo equo apprezzamento.

Avv. Emanuela Foligno

SEGUE

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