Superficialità dei sanitari e mancato “lavoro di equipe”. Queste sono le cause che hanno provocato la morte di Arianna Acrivoulis, la 38enne di Bitritto deceduta lo scorso 10 giugno all’ospedale di Conversano dopo un intervento di agoaspirazione ovarica per la fecondazione assistita. Durante le indagini gli esperti ministeriali hanno scoperto che la donna aveva un quadro clinico alle spalle tutt’altro che rassicurante. L’equipe, infatti, ha scoperto che la signora Acrivoulis soffriva di ipertensione arteriosa, diabete mellito, obesità, irsutismo, steatosi epatica, calcolosi della colecisti e blocco di branca sinistra.
Tutti “importanti fattori di rischio” che i sanitari del Conversano non dovevano sottovalutare.
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La relazione degli esperti ministeriali
Nel caso in questione non risulta che sia stata effettuata, se non parzialmente, una appropriata valutazione dei fattori di rischio sia per le procedure e tecniche di fecondazione, quanto anche in relazione agli effetti che tali fattori di rischio avrebbero comportato su una futura e possibile gravidanza, con l’occorrenza presumibile di specifiche complicanze per il feto.
Durante le prime fasi di agoaspirazione dei follicoli ovarici, la signora manifesta rush cutaneo e difficoltà respiratoria, per cui l’anestesista, ritenendo tali sintomi conseguenti ad allergia, dopo un tentativo di intubazione andato a vuoto, somministra adrenalina e cortisone e ventila con pallone: poiché entro pochi minuti i sintomi regrediscono, viene deciso dal ginecologo e dall’anestesista di continuare la procedura, che viene portata a termine.
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Dalla relazione emergono altri dettagli inquietanti. ”La signora, durante il trasferimento dal lettino operatorio al letto mobile di degenza, riferisce di “non respirare bene” per cui viene rapidamente portata in sala risveglio e poiché presenta una frequenza cardiaca elevata, viene chiamato in consulenza il cardiologo presente nella struttura. La paziente, per il peggioramento dei parametri vitali, viene intubata”. Risultano, infine, inutili le manovre salvavita. Come si legge dalla relazione, nonostante ”le successive numerose manovre di defibrillazione la paziente va incontro a decesso”.
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