Respinta l’impugnazione di un medico odontoiatra rispetto alla confisca dei computer del suo studio per la verifica di alcuni illeciti fiscali

E’ legittimo il sequestro dei computer di uno studio medico se funzionale all’accertamento del reato di dichiarazione infedele. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1159 dell’11 gennaio 2017. Nel caso in esame la Suprema Corte ha respinto il ricorso di un medico odontoiatra indagato per il reato di dichiarazione infedele, ai sensi dell’articolo 4 del Dlgs 74/2000, nei confronti del quale il Tribunale del Riesame aveva confermato il decreto di sequestro di perquisizione e sequestro probatorio disposto dal Pubblico ministero presso il medesimo tribunale.
Il medico lamentava l’illegittimità del provvedimento di sequestro delle attrezzature professionali presenti nello studio medico, innanzitutto per la mancanza e l’apparenza della concreta finalità probatoria del sequestro. Inoltre le decisioni del riesame avrebbero violato il principio di proporzionalità, applicabile anche in riferimento alla materia cautelare reale, in quanto la convezione di Budapest del 2008 sulla criminalità informatica, impedisce il sequestro di interi sistemi informatici.Infine, il sequestro avrebbe violato le norme processuali poste a garanzia del segreto professionale, tenuto conto che i computer contenevano informazioni relative a dati sensibili dei pazienti.
Gli Ermellini, tuttavia, hanno ritenuto di non aderire alle argomentazioni proposte confermando, in primis, la natura probatoria del sequestro posto in essere, essendo volto a verificare il funzionamento del software e a ottenere un ulteriore riscontro delle dichiarazioni trasmesse; tali concrete esigenze probatorie. Peraltro, erano state adeguatamente motivate nel precedente grado di giudizio. Quanto alla presunta violazione del principio di proporzionalità, secondo i Giudici di Piazza Cavour, nel caso in esame, appare proporzionato il sequestro dell’intero sistema informatico, proprio per la necessità di eseguire sugli stessi delle attività tecniche, che richiedevano una verifica hardware per ciascuna unità.
Da ultimo, in relazione alle garanzie processuali previste per i dati personali idonei a rilevare i rapporti professionali con i clienti dello studio medico, se è vero che, secondo quanto disposto dall’articolo 26 del D.Lgs 196/2003, possono essere oggetto di trattamento solamente qualora ci sia il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante, la Cassazione rileva che tale limitazione non opera nei confronti dell’autorità giudiziaria che indaga su fatti penalmente rilevanti. Lo si desume sia dai principi generali del diritto processuale penale, sia dal codice della privacy. Quest’ultimo, infatti, stabilisce all’articolo 18, comma 2, che il trattamento di dati personali da parte di soggetti pubblici è consentito per lo svolgimento delle funzioni istituzionali, mentre l’articolo 26, comma 4, lettera c), precisa che i suddetti dati possono essere utilizzati, previa l’autorizzazione del Garante, qualora sia necessario ai fini dello svolgimento delle investigazioni difensive. Il fatto che non vi sia un’analoga disposizione per il pubblico ministero dimostrerebbe che, per la pubblica accusa, non vi sarebbero in materia di acquisizione di documenti o, come nel caso di specie, di apparecchiature informatiche, contenenti dati sensibili. Tale interpretazione, peraltro, trova conferma anche nella sentenza n. 1480/1999 della stessa Corte, in riferimento ai dati sanitari.

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