È legittima la sanzione disciplinare irrogata al dirigente medico dipendente dell’ASL che ha quote di partecipazione (maggioritaria) in altra società in conflitto di interessi con il Servizio Sanitario Nazionale

La vicenda

La Corte d’Appello di Firenze aveva accolto la domanda proposta da un dirigente medico nei confronti dell’ASL, annullando la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per un mese, inflittagli in relazione alla incompatibilità rilevata tra il rapporto di lavoro con la predetta struttura e la proprietà in capo allo stesso di quote (maggioritarie) di una società di capitali (s.r.l.), che, in conflitto di interessi con l’ASL, si occupava dell’organizzazione e prestazione di servizi accessori all’attività medica.

Per i giudici della Corte d’Appello fiorentina la mera partecipazione societaria del dirigente non poteva integrare alcuna incompatibilità idonea a giustificare le sanzioni disciplinari inflittegli, anche perché tale statuizione era stata resa nota al momento della assunzione ed inoltre, l’ASL si era limitata a richiamare l’oggetto sociale senza specificare alcuna attività concretamente posta in essere in conflitto di interessi.

Il ricorso per Cassazione

Per la cassazione della sentenza l’Azienda sanitaria ha proposto ricorso, denunciando l’errata interpretazione, nonché la falsa applicazione delle leggi n. 412/1991 art. 4, co. 7 e n. 662/1196, art. 1, comma 5), per aver la Corte di merito, posto a suo carico l’onere di provare la potenzialità del conflitto di interessi a fronte dell’esistenza di una situazione di incompatibilità oggettiva.

Come noto, la normativa sul pubblico impiego prevede il dovere di “esclusività” del dipendente pubblico, il quale è obbligato a riservare all’ufficio di appartenenza tutte le sue energie lavorative, con espresso divieto, salve limitate tassative eccezioni, di svolgere attività imprenditoriale, professionale o di lavoro autonomo, nonché di instaurare rapporto di lavoro alle dipendenze di terzi o accettare cariche in società o enti che abbiano fini di lucro.

L’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 rappresenta la norma generale in materia.

Tale normativa ha posto sbarramenti assoluti, in ragione della preminenza dell’interesse pubblico, mirando a prevenire, già sul piano delle potenzialità, il dispendio di energie del lavoratore pubblico in altre attività.

In particolare, la legge n. 412/1991, n. 412 (fatta salva dall’art. 53 del d.lgs n. 165/2001) ha introdotto il principio del rapporto unico di lavoro con il servizio sanitario nazionale (art. 4, comma 7).

È stata così espressamente sancita l’incompatibilità con: a) ogni altro rapporto di lavoro dipendente pubblico o privato; b) altri rapporti anche di natura convenzionale con il Servizio Sanitario Nazionale (SSN); c) l’esercizio di altre attività che possono configurare conflitto di interessi con il SSN; d) la titolarità o la compartecipazione delle quote di imprese che possono configurare conflitto di interessi con il SSN.

Anche in questo caso è riconosciuto rilievo alla mera situazione di conflitto di interessi che integra l’incompatibilità.

Tuttavia, rispetto al regime generale, il divieto assoluto nel caso di personale sanitario soffre di una eccezione concernente lo svolgimento della libera professione, che è consentito, fuori dall’orario di lavoro e in strutture non convenzionate dal SSN a tutti i dipendenti medici, indipendentemente dal loro orario (l’ambito di applicazione dell’eccezione è stato ritenuto costituzionalmente legittimo in considerazione della natura e delle funzioni integrative e sussidiarie svolte dalle istituzioni sanitarie private convenzionate: Corte cost. n. 457/1993; n. 21/1994; n. 450/1994).

Ad ogni modo, al pari della disposizione generale di cui all’art. 53 del d.lgs n. 165/2001, anche quella di cui all’art. 4, comma 7, della L. n. 412/1991, persegue la finalità di garantire l’imparzialità, l’efficienza e il buon andamento della pubblica amministrazione, in ottemperanza a quanto prescritto dall’art. 97 Cost., nonché quella di evitare la creazione di centri di interesse alternativi all’ufficio pubblico in capo al sanitario, che lo distoglierebbero dai propri doveri istituzionali.

La situazione di incompatibilità

Tale normativa richiede una interpretazione rigorosa e pertanto, a giudizio degli Ermellini, la sola titolarità da parte del sanitario di quote di maggioranza della società (avente il seguente oggetto sociale: “… L’organizzazione e la prestazione di servizi accessori all’attività medica (…) costituzione e gestione di centri medici, di laboratori di analisi e di ricerca, di gabinetti di radiologia e fisioterapia; allestire reparti di degenza, acquistare attrezzature, stipulare convenzioni o accordi con centri medici autorizzati con il SSN e con altri enti previdenziali e assistenziali sia pubblici che privati ecc. ”) avrebbe dovuto indurre i giudici di merito a ritenere integrata la descritta situazione di incompatibilità di cui all’art. 4, comma 7, della l. n. 412/1992.

Ed infatti, «l’espressione “possono configurare conflitto di interessi con il SSN” – ha chiarito il Supremo Collegio – vale a differenziare la tipologia delle partecipazioni societarie, restando evidentemente fuori dal divieto quelle che non configurino, sulla base di un giudizio prognostico ex ante da svolgersi anche e principalmente con riferimento all’oggetto sociale, alcun conflitto di interesse (essere un pubblico dipendente non impedisce in assoluto di investire il proprio denaro in quote del capitale sociale di una società)».

Non era dunque, l’Azienda sanitaria, nel caso in esame, “a dover dimostrare altro (conflitto di interessi in concreto ovvero effettivo danno per l’azienda) perché la partecipazione maggioritaria avente un oggetto sociale chiaramente indicativo di un interesse distinto se non inconciliabile rispetto alle attività del SSN è già in sé integrativa del divieto legislativamente previsto ed espressiva di una situazione di contrasto”. Tutt’al più spettava al sanitario dimostrare che a quel dato formale non corrispondesse alcuna realtà fattuale.

I giudici della Sezione Lavoro (ordinanza n. 31277/2019) hanno anche chiarito che l’incompatibilità oggetto di causa è cosa diversa da quella che riguarda l’esercizio dell’attività professionale.

Infatti, l’art. 1, comma 5 della l. 662/1996 stabilisce che le incompatibilità previste dall’art. 4, comma 7 della l. n. 412/1991 sono da riferire anche alle strutture sanitarie private accreditate, le quali, in base alla disciplina di cui agli art. 8 bis e ss. Del d.lgs n. 502/1992 sono solo quelle in possesso di determinati requisiti con le quali le ASL potrebbero concludere accordi economici, stipulando con le stesse convenzioni.

Tale incompatibilità, in sostanza, sussiste anche nei casi di conflitto di interesse sorto in relazione a quelle strutture con cui il SSN non ha (o non ha ancora) rapporti economici.

La redazione giuridica

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