Confermata la sanzione disciplinare per due avvocati “accusati” di non aver emesso regolare fattura tempestivamente e contestualmente alla riscossione dei compensi, non rilevando a tal fine l’assenza di volontarietà dell’azione

La vicenda

In seguito a un esposto presentato al Consiglio dell’ordine degli Avvocati (COA) di Milano, due avvocati venivano sottoposti a procedimento disciplinare perché accusati di aver trattenuto indebitamente, a titolo di rimborso delle spese legali, una parte delle somme ricevute dal cliente per l’ammortamento di un contratto di mutuo.

Richiesti chiarimenti, i due avvocati contestavano quanto affermato deducendo di avere gestito correttamente la pratica in oggetto, peraltro protrattasi oltre anni dieci.

Il procedimento disciplinare

Nel dicembre del 2011 il COA deliberava l’apertura del procedimento disciplinare a carico dei due professionisti contestando di “essere venuti meno ai doveri di probità e diligenza per:

1) avere nell’interesse del predetto esponente incassato la somma complessiva di 88.000 euro da destinarsi all’estinzione del contratto di mutuo, versando invece alla banca mutuataria il ridotto importo di 80.000 euro senza fornire al cliente preciso rendiconto;

2) non avere provveduto a emettere regolare fattura a fronte dei corrispettivi trattenuti a titolo di rimborso per le spese legali;

3) non avere costantemente informato il cliente dell’intenzione della banca di non concedere la richiesta rateizzazione di pagamento.

All’esito dell’istruttoria i due professionisti venivano sospesi dall’esercizio della professione per due mesi.

La vicenda è giunta al Consiglio Nazionale Forense (CNF), pronunciatosi con la sentenza n. 1 del 27 febbraio 2019.

Il Collegio ha ritenuto provata la circostanza dedotta dai due appellanti di aver versato al creditore tutte le somme ricevute dal debitore loro assistito, e di aver trattenuto a titolo di rimborso spese 8.000 euro nell’arco temporale di dieci anni. Infatti, i ricorrenti avevano prodotto 41 documenti afferenti in gran parte ai pagamenti eseguiti dal 2003 al dicembre 2005, mediante assegni personali tratti dal cliente a favore dell’Istituto bancario e successivamente mediante bonifici.

L’attività di trasmissione per conto del cliente di pagamenti periodici a terzi non configura, né può configurare, gestione di denaro di quest’ultimo, e non può certo far nascere in capo al professionista un obbligo di rendicontazione in senso stretto, dal momento che la trasmissione al cliente delle singole missive con cui vengono effettuati i pagamenti esaurisce l’obbligo professionale di dar conto delle attività svolte. Al contempo, – ha aggiunto il CNF – la ridetta attività assolve anche l’obbligo di diligenza e di correttezza, nonché quello di informativa, dal momento che gli incolpati una volta ricevuti i titoli di pagamento dal cliente avevano provveduto ad inoltrarli all’Istituto di credito”.

È stata invece, confermata la decisione impugnata per quanto riguarda la mancata fatturazione dei compensi professionali trattenuti (euro 8.000) e la omessa informativa al cliente.

Nessun rilievo è stato attribuito alla presunta assenza di volontarietà della condotta da loro posta in essere.

Sul punto è stato sufficiente ribadire che per l’imputabilità dell’infrazione disciplinare non è necessaria la consapevolezza dell’illegittimità dell’azione, dolo generico o specifico, ma è sufficiente solo la volontarietà (c.d. suitas) con la quale è stato compiuto l’atto deontologicamente scorretto.

Secondo la Corte di Cassazione (SS.UU., ordinanza n. 22521 del 7 novembre 2016), “in materia di illeciti disciplinari, la “coscienza e volontà delle azioni o omissioni» di cui all’articolo 4 del nuovo Codice deontologico consistono nel dominio anche solo potenziale dell’azione o omissione, che possa essere impedita con uno sforzo del volere e sia quindi attribuibile alla volontà del soggetto. Il che fonda la presunzione di colpa per l’atto sconveniente o addirittura vietato a carico di chi lo abbia commesso, lasciando a costui l’onere di provare di aver agito senza colpa”.

Ne deriva che l’agente resta “scriminato” solo se vi sia errore inevitabile, cioè non superabile con l’uso della normale diligenza, oppure se intervengano cause esterne che escludono l’attribuzione psichica della condotta al soggetto, non potendosi neppure parlare di imperizia incolpevole ove si tratti di professionisti del settore legale e quindi in grado di conoscere e interpretare correttamente l’ordinamento giudiziario e forense”.

La redazione giuridica

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