Ferita al cavo ascellare e perdita dell’uso del braccio

0
Ferita-al-cavo-ascellare

La asserita responsabilità medica dell’Ospedale trae origine da una caduta dalla scala a seguito della quale il paziente si recava al pronto soccorso per ferita al volto e al cavo ascellare.

Il caso

Nel 2002, a seguito di una caduta da una scala appoggiata ad un albero, la vittima veniva trasportato prima al Pronto Soccorso, dove gli veniva suturata una ferita al sopracciglio, e poi trasferito d’urgenza all’ospedale per accertamenti. Quindi i medici gli diagnosticavano una lussazione alla spalla destra e una vasta ferita lacero contusa al cavo ascellare con probabile lesione vascolo nervosa.

Il paziente veniva sottoposto ad un primo intervento chirurgico per riduzione della lussazione e pulizia della vasta ferita, all’inizio del quale il polso radiale dell’arto superiore destro era presente. Veniva poi trasferito d’urgenza presso l’unità operativa di chirurgia vascolare del Policlinico di Bari, ove era sottoposto ad un intervento di chirurgia vascolare (fasciotomia) e a successivi altri interventi. Perdeva la mobilità dell’arto destro con estesa necrosi muscolare dell’avambraccio e riportava una significativa invalidità permanente oltre a un consistente periodo di invalidità temporanea totale e parziale.

L’uomo ritiene che i gravi postumi sarebbero stati causati dal comportamento negligente dei sanitari dell’Ospedale dove era stata ridotta la lussazione ed eseguita la pulizia della importante ferita al cavo ascellare, prima del trasferimento a Bari.

La vicenda giudiziaria

Dopo l’effettuazione di due CTU, il Tribunale di Bari rigettava la domanda, ritenendo che le condotte contestate ai sanitari non avessero inciso negativamente sul decorso post traumatico e quindi che esse fossero state sostanzialmente ininfluenti in relazione ai postumi permanenti patiti dal paziente.

La Corte d’appello di Bari rigettava l’appello, confermava pienamente la decisione di primo grado. Inoltre richiamava i contenuti della seconda consulenza, all’esito della quale il Tribunale, condividendone le conclusioni, ha rigettato la domanda, ritenendo che “l’occlusione vascolare arteriosa manifestatasi dopo l’intervento rappresentò una complicanza non prevedibile e non diversamente evitabile ed escludendo quindi ogni responsabilità dei medici”.

La Corte d’Appello, nella propria decisione, dà atto di avere effettuato una integrazione in appello della CTU proprio per rispondere alle perplessità sollevate dalla vittima con i motivi di appello, ne riferisce gli esiti e conferma che, sulla base delle evidenze obiettive desunte anche dalla cartella clinica, da nessuno posta in discussione, non fosse configurabile una colpa omissiva in capo alla Asl convenuta e neppure una colpa correlata alla cattiva o tardiva esecuzione dell’intervento di chirurgia vascolare.

La sentenza d’appello segnala che lo stesso consulente di parte della vittima conveniva che le lesioni nervose si presentarono subito dopo la fine dell’intervento, e quindi non prima ancora di esso e che le condizioni del paziente non rendevano necessario un approfondimento strumentale mediante ecodoppler prima dell’esecuzione dell’intervento.

L’intervento della Cassazione

La Cassazione interviene per decidere della nullità della sentenza per omessa motivazione in ordine alle ragioni di gravame contenute nell’atto d’appello con riferimento alla invocata erroneità della CTU e alle molteplici omissioni compiute dal medesimo ausiliare.

La vittima riporta ampi passi della CTU di primo grado, che sulla base dei referti sottolineava che “all’inizio della prima operazione esisteva una mobilità del polso e della mano e il polso radiale era ridotto ma presente, mentre al termine dell’intervento gli stessi chirurghi constatavano l’assenza del posto radiale con aspetto ischemico diffuso dell’avambraccio e della mano, proseguendo nell’affermare che al primo intervento seguiva un secondo intervento a cura dei chirurghi vascolari del Policlinico, che non riuscivano a ripristinare una situazione di normale funzionamento vascolare cosicché si verifica la perdita pressoché totale della funzione dell’arto superiore destro, stimata dal primo CTU in un danno biologico permanente valutabile nel 70%”.

Le Consulenze Tecniche

La prima consulenza, pur dando atto della difficoltà di comprendere con precisione cosa fosse accaduto nel corso del primo intervento, concludeva ritenendo che fosse individuabile una condotta imperita da parte degli ortopedici dell’ospedale, che nell’atto di effettuare la ripulitura della ferita e la ricostruzione dei tessuti lacerati determinarono il danno vascolare e nervoso e quindi un comportamento imperito, unitamente a un comportamento imprudente per non aver coinvolto sin dall’inizio i colleghi della chirurgia vascolare o del reparto di neurochirurgia, a fronte di una situazione che prevedibilmente poteva nascondere insidie e difficoltà legata proprio alla lesione di tronchi nervosi e vascolari”.

Il secondo CTU, incaricato di rinnovare la consulenza, giungeva alla conclusione diametralmente opposta affermando: “non riteniamo che nella vicenda sanitaria che abbiamo trattato siano ravvisabili censurabili condotte di coloro che prestarono la loro opera al paziente”.

In appello veniva espletato un supplemento di consulenza tecnica chiedendo all’esperto se, ove il paziente fosse stato trasferito tempestivamente in un centro specializzato, oppure se fosse stato da subito convocato un esperto di chirurgia vascolare, si sarebbero presumibilmente scongiurati effetti lesivi invalidanti. Gli approfondimenti confermavano le valutazioni della consulenza già effettuata. La sentenza d’appello aderiva in pieno alle conclusioni del secondo Consulente.

Il paziente sostiene che la motivazione della sentenza impugnata si baserebbe su un presupposto completamente errato ossia la completezza dell’indagine svolta da parte del secondo gruppo di consulenti. Il ricorrente, in definitiva, addebita alla Corte d’appello l’errore di aver condiviso le conclusioni del secondo consulente, piuttosto che condividere le tesi del primo consulente secondo le quali furono i medici dell’ospedale a procurare, con la loro superficialità e imprudenza, quelle lesioni nervose e vascolari che all’inizio del primo intervento chirurgico non erano ancora presenti.

L’operato dei medici non sarebbe bastato ad escludere la complicazione

La Cassazione evidenzia che la contraddizione tra le due CTU lamentata dal paziente si fonda su un falso presupposto, ovvero su un postulato privo di dimostrazione, cioè che l’intervento dei medici, se maggiormente diligente, sarebbe stato idoneo ad escludere ogni possibile complicazione e postumo permanente derivante dalla grave ferita riportata a seguito della caduta accidentale. Non è stato accertato in giudizio che l’ischemia sia stata provocata dalle modalità di intervento dei medici, avendo entrambi i giudici ritenuto possibile che fosse una situazione che si sia progressivamente determinata, originata dal grave trauma riportato e alla quale i medici non hanno potuto porre riparo.

La decisione di appello non si limita ad aderire agli esiti della seconda CTU, ma dà conto del contenuto della prima, ed anche delle inesattezze in essa contenute e delle ragioni per cui il Tribunale riteneva di rinnovarla, della seconda consulenza, ed anche delle critiche ad essa mosse con l’appello, in conseguenza delle quali ne ha disposto un approfondimento atto a rispondere ai rilievi di parte, i cui esiti ha poi condiviso ritenendo che non esistessero elementi per porre l’esito ischemico in relazione causale con le modalità di intervento dei medici.

Il ricorso, pertanto, viene dichiarato complessivamente inammissibile (Cassazione Civile, sez. III, 22/04/2024, n.10803).

Avv. Emanuela Foligno

Leggi anche:

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui