“La mancanza di informazione e, quindi, di consenso informato riguardante un atto terapeutico o diagnostico non è fonte di responsabilità medica, né di danno biologico, qualora, pur verificandosi effetti negativi da tale atto medico, il paziente non dimostri che, se fosse stato informato, lo stesso avrebbe rifiutato il trattamento o l’esame diagnostico accettando i rischi derivanti da tale rifiuto”.
Con la sentenza della Corte di Cassazione n°9331 del 08/05/2015 a conferma di alcuni orientamenti risalenti ma, evidentemente, mai superati, la Corte ha avuto modo di porre un ulteriore tassello in tema lettura, importanza, obbligatorietà del consenso informato.
La tematica è importante, giacchè non esiste procedimento giudiziario, civile o penale che sia, nel quale per le ragioni più diverse (a volte realmente inverosimili) non venga avanzata una doglianza riguardante la somministrazione, la comprensione, la completezza del detto atto informativo.
In particolare, il caso da cui la Suprema Corte fa discendere il detto assunto, riguarda una donna sottoposta a trattamento radioterapico dal quale sono derivati effetti negativi. La paziente lamentava di non essere stata adeguatamente informata circa i rischi connessi alla radioterapia sostenendo che, se avesse avuto contezza di tali effetti, avrebbe rifiutato il trattamento.
L’analisi puntuale degli atti di causa ha permesso al Giudice di primo grado di accertare che il trattamento radioterapico era stato, non solo ben eseguito, ma era anche la migliore terapia da eseguire stante la storia clinica della paziente e i rischi connessi alla metodica, di gran lunga inferiori rispetto ad altre e più invasive terapie. Inoltre, la paziente aveva già manifestato una intolleranza grave alla chemioterapia che non lasciava altra scelta se non un intervento chirurgico.
Per tali ragioni, sia Tribunale adìto dalla paziente che la Corte d’Appello, rigettando le richieste della stessa, non hanno rinvenuto profili di responsabilità medica, né tantomeno di danno biologico derivante dal mancato consenso, neppure come aggravamento della patologia in essere. Unico diritto leso, quindi, è stato quello di informazione con conseguente liquidazione di un danno infinitamente inferiore rispetto a quello richiesto dalla parte attrice.
Nel confermare l’orientamento espresso in primo e secondo grado, la Suprema Corte ha chiarito che non è accoglibile l’assunto secondo il quale la lesione del diritto alla autodeterminazione comporti lesione del diritto salute in mancanza di prova del danneggiato, anche in via presuntiva, che, debitamente informato, non avrebbe effettuato l’intervento. Tale principio trova conferma in un orientamento, oggi definitivamente confermato, che vuole che: “In tema di responsabilità professionale del medico, in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell’arte, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un’adeguata informazione dei paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento, non potendo altrimenti ricondursi all’inadempimento dell’obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute”. (Cass. n. 2847 del 2010; n. 16394 del 2010).
Quanto appena detto, sposta in maniera importante l’onere della prova sui pazienti ai quali non basterà più addurre una generica lesione del diritto ad essere informati, una mal comprensione delle informazioni ricevute, una non completa informazione, una scarsa esaustività dei moduli di consenso richiedendo il relativo danno biologico e morale, ma dovranno provare che, se avessero ricevuto la migliore delle informative possibili, essi avrebbero rifiutato di sottoporsi alla cura o all’esame prescritto dal medico accettando i relativi rischi per la propria salute, per la prosecuzione delle cure, per l’iter diagnostico terapeutico da seguire.
Tale principio, che può apparire trascurabile, stante il favore spesso eccessivo con i quali i Tribunali Italiani valutano in genere le doglianze relative al consenso informato, ha, in realtà, una portata dirompente. Infatti, dimostrare e seriamente sostenere che si sarebbe rifiutata una cura o un esame diagnostico accettandone tutti i rischi, è tutt’altro che semplice. Se i giudici e, soprattutto, i CTU dovessero seguire tale principio, non potrebbero esimersi dall’analizzare anche i profili di veridicità, onestà ed attendibilità delle affermazioni dei pazienti agenti in giudizio le cui difese, fin troppo spesso, si basano su assunti assolutamente scevri da valutazioni reali e che si fondano sulla generica violazione di diritti. Un analisi in tal senso porterebbe, in un non trascurabile numero di casi, a rigettare le doglianze dei pazienti poiché, se può non dubitarsi circa il rifiuto di una cura, ad esempio, per un persistente emicrania qualora effetto collaterale possibile sia la perdita della vista, lo stesso non potrà farsi in tutti quei casi nei quali il non eseguire una terapia o un esame diagnostico, comporti una lesione importante della salute del paziente o della sfera umana ed emotiva dello stesso, come ad esempio in tema di fertilità o di patologie del sistema circolatorio dove le conseguenze del “non curarsi” o del “non approfondire” rischiano di provocare lesioni gravissime ed irreversibili per il paziente stesso.
In tutti i casi nei quali tale verifica dia esito negativo o inverosimile non sarà riscontrabile alcun nesso di causalità in riferimento alle conseguenze della omessa informazione rispetto allo stato di salute del paziente.
Ma la Corte con la detta sentenza va anche oltre. Infatti, chiarita la reale portata dal punto di vista del diritto violato delle conseguenze connesse alla assente od incompleta informazione, riporta in vita un altro principio riaffermandone tutta la validità. Secondo la Suprema Corte, “l’inadempimento dell’obbligo di informazione sussistente nei confronti del paziente può assumere rilievo a fini risarcitori – anche in assenza di un danno alla salute o in presenza di un danno alla salute non ricollegabile alla lesione del diritto all’informazione – tutte le volte in cui siano configurabili, a carico del paziente, conseguenze pregiudizievoli di carattere non patrimoniale di apprezzabile gravità derivanti dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in se stesso considerato, sempre che tale danno superi la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e che non sia futile, ossia consistente in meri disagi o fastidi (Cass. n. 2847 del 2010)”.
Tale ultimo assunto gradua ulteriormente le conseguenze derivanti dalla lesione del diritto alla informazione, che non è più sempre e comunque causa di responsabilità e conseguente dovere di risarcimento per il medico, ma lo diventa soltanto se tale lesione produca danni di importante rilevanza che non si sostanzino in microlesioni o semplici fastidi.
Una lettura accorta di tale principio dovrebbe, quindi, indurre a ritenere che non possa essere richiesto, e di conseguenza liquidato, nessun tipo di danno per il semplice fatto che l’informativa sia stata assente o carente, laddove da tale circostanza negativa non siano derivati danni di una certa rilevanza o consistenza. Con ciò dovrebbero tramontare definitivamente le generiche richieste di risarcimento basate sulla mancanza o incompletezza del consenso informato, che oggi costituiscono uno dei c.d. “cavalli di battaglia” delle parti attrici nei processi di responsabilità medica.
Da tutto quanto detto, emerge un piccolo ma deciso cambio di rotta in riferimento alla valutazione ed all’accertamento della responsabilità medica in tema di consenso informato, occorrerà valutare nel tempo quanto, i principi su commentati, condizioneranno l’operato dei giudici di merito nel senso di una contrizione nell’accoglimento delle richieste risarcitorie in tema di consenso, contrizione che, nel rispetto dei diritti di entrambe le parti in causa, appare comunque auspicabile stante la incidenza che non si esita a definire devastante che le cause per responsabilità medica hanno a livello di costi sanitari per l’intera collettività.
Avv. Gianluca Mari