L’uscita dal lavoro in anticipo e la mancata osservanza delle disposizioni datoriali rappresentano un costante e generale atteggiamento di sfida e di disprezzo del dipendente nei confronti dei superiori gerarchici e della disciplina aziendale tale da far venir meno il permanere del rapporto fiduciario

La vicenda

Con ricorso al Tribunale del lavoro di Nocera Inferiore, il dipendente di un’azienda grafica, impiegato come addetto al magazzino, aveva impugnato il licenziamento a lui intimato, chiedendo che ne fosse dichiarata l’illegittimità con condanna della convenuta alla reintegra nel posto di lavoro o in subordine all’applicazione delle conseguenze risarcitorie L. 20 maggio 1970, n. 300, ex art. 18, commi 5, 6 e 7.

Il Tribunale in sede cautelare accoglieva solo in parte il ricorso, escludeva la natura discriminatoria o ritorsiva del licenziamento, ritenendo il fatto addebitato sussistente ancorchè sanzionato con una sanzione (espulsiva) sproporzionata; disponeva, pertanto, il pagamento dell’indennità risarcitoria nella misura di 18 mensilità.

Tale indennità veniva, poi, elevata a 24 mensilità dal Tribunale in sede di opposizione; mentre la Corte d’Appello di Salerno, riformava totalmente la decisione di primo grado, respingendo l’originaria domanda del lavoratore.

Le ragioni del licenziamento del dipendente

Da quanto emerso la società datrice di lavoro aveva licenziato il proprio dipendente a seguito di alcune contestazioni che gli addebitavano l’abbandono del proprio posto di lavoro prima della fine del turno in plurime occasioni ed il rifiuto di riprendere servizio nonostante l’espresso invito a farlo e le minacce che lo stesso aveva rivolto al capo reparto di “scatenare una guerra in azienda”.

Nella lettera di licenziamento si era sottolineato l’atteggiamento del ricorrente che aveva sempre ammesso di aver terminato il lavoro dieci minuti prima del fine del turno, invocando il diritto al tempo tuta; tale atteggiamento era continuato nonostante, in seguito, quei dieci minuti, di fatto corrispondenti al tempo impiegato per la vestizione, gli furono retribuiti come lavoro straordinario. Tali condotte si erano inoltre ripetute nel tempo anche nel periodo successivo ai primi richiami verbali e anche dopo la ricezione da parte del lavoratore delle lettere di contestazione disciplinare.

La Corte d’Appello salernitana aveva, pertanto, ritenuto che il reiterato ed intenzionale abbandono anticipato del posto di lavoro, oltre ad essere ingiustificato fosse stato accompagnato da un atteggiamento di sfida verso il superiore gerarchico e verso l’azienda nonchè da un elemento psicologico tali da ricondurre l’infrazione alle previsioni contrattuali legittimanti la risoluzione del rapporto per effetto del venir meno del vincolo di fiducia; ed aveva, altresì, escluso che si trattasse di licenziamento antisindacale o ritorsivo in danno del lavoratore.

L’insubordinazione del dipendente

Con riferimento alla disubbidienza agli ordini ed alle direttive, la giurisprudenza ha da tempo osservato che il lavoratore può chiedere giudizialmente l’accertamento della legittimità di un provvedimento datoriale che ritenga illegittimo, ma non è autorizzato a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario (conseguibile anche in via d’urgenza), di eseguire la prestazione lavorativa richiesta, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni impartite dall’imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c., e può legittimamente invocare l’eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., solo nel caso in cui l’inadempimento del datore di lavoro sia totale (Cass. 19 gennaio 2016, n. 831 e Cass. 26 settembre 2016, n. 18866).

Invero, la giurisprudenza della Suprema Corte, privilegiando una nozione ampia di insubordinazione, ha affermato che essa, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori (e dunque ancorata, attraverso una lettura letterale, alla violazione dell’art. 2104 c.c., comma 2), ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale (Cass. 27 marzo 2017, n. 7795; Cass. 11 maggio 2016, n. 9635).

L’insubordinazione, poi, può risultare da una somma di diversi comportamenti e non necessariamente da un singolo episodio.

Sul punto, la giurisprudenza (Cass. 30 marzo 2012, n. 5112) ha affermato che il comportamento reiteratamente inadempiente posto in essere dal dipendente, come l’abbandono per un’ora e mezzo del posto di lavoro, l’uscita dal lavoro in anticipo e la mancata osservanza delle disposizioni datoriali e delle prerogative gerarchiche, è contraddistinto da un costante e generale atteggiamento di sfida e di disprezzo nei confronti dei vari superiori gerarchici e della disciplina aziendale tale da far venir meno il permanere dell’indispensabile elemento fiduciario. In questo contesto l’insubordinazione si rende evidente dalla somma di tutti i comportamenti che possono essere tali da integrare una giusta causa di licenziamento.

Ora, nella vicenda esaminata, oggetto di licenziamento non era stato il semplice abbandono del posto di lavoro ma la grave insubordinazione dimostrata attraverso il comportamento tenace ed ostinato di contrapposizione rispetto ai richiami datoriali.

Sul punto, la Corte d’Appello di Salerno “con motivazione congrua, logica e rigorosa, ancorata a sintomatici rilievi fattuali”, aveva ben spiegato perchè il richiamo al tempo tuta, al preteso uso aziendale ed al diritto all’eventuale straordinario non potessero assurgere a valide giustificazioni del comportamento del lavoratore.

Aveva, così, evidenziato che la questione del tempo tuta non fosse mai stata sollevata dai sindacati nè tantomeno dal ricorrente, nelle sedi a ciò deputate, nè formalmente e ufficialmente sottoposta all’azienda e comunque anche un eventuale diritto ad includere nell’orario di lavoro il tempo per la vestizione, il lavoratore, avendo solo eventualmente diritto al compenso aggiuntivo, sarebbe stato in ogni caso tenuto a completare il turno.

Tale valutazione – ha affermato il Supremo Collegio (Sezione Lavoro, sentenza n. 22382/2018) – è conforme al principio di diritto secondo cui laddove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre solo se tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito (Cass. 28 marzo 2018, n. 7738; Cass. 26 gennaio 2016, n. 1352).

La decisione

La Corte territoriale aveva, inoltre, sottolineato come le dimensioni del magazzino e l’esiguo numero dei dipendenti ivi addetti non potessero qualificare come uso aziendale la mera prassi di interrompere la prestazione di alcuni minuti prima della fine del turno ed aveva rimarcato il fatto che la società avesse avvisato tutti i lavoratori di rispettare l’orario di lavoro.

Per tutte queste ragioni, la Corte ha rigettato il ricorso e confermato in via definitiva, la decisione di merito.

Avv. Sabrina Caporale

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