Il colpevole ritardo nella diagnosi di patologia ad esito infausto determina il danno derivante dalla perdita di un ventaglio di opzioni

“Il ritardo nella diagnosi di patologia ad esito infausto determina il danno derivante dalla perdita di un “ventaglio” di opzioni, con le quali affrontare la prospettiva della fine ormai prossima”, così  ha affermato la Suprema Corte (Cass. Civ., sez. III, sentenza n. 10424 del 15 aprile 2019).

La pronunzia a commento si distingue per la “sensibilità” che merita maggior tutela, ovvero quella di tutelare il paziente e porlo in condizioni di potere decidere cosa fare per il tempo che gli rimane.

Con riferimento a fattispecie di omessa tempestiva diagnosi di patologie oncologiche ad esito, comunque, infausto, la Suprema Corte ha già indicato che è errato affermare che la condotta omissiva non incida sulla qualità di vita del paziente. Infatti, una simile affermazione non tiene in debito conto la possibilità che (nel lasso di tempo intercorso tra la diagnosi errata e quella esatta), nel paziente perdura il suo stato di sofferenza fisica senza che ad esso possa essere apportato un qualche pur minimo beneficio a causa della diagnosi errata (Cass. Sez. 3, sent. 18 settembre 2008, n. 23846).

Inoltre, da una diagnosi esatta di una malattia ad esito infausto consegue che il paziente, deve essere messo nelle condizioni per scegliere cosa fare, e questa è una situazione meritevole di tutela “al di là di qualunque considerazione soggettiva sul valore, la rilevanza o la dignità, degli eventuali possibili contenuti di tale scelta” (Cass. Sez. 3, ord. n. 7260 del 2018).

Quindi, in presenza di colpevoli ritardi nella diagnosi di patologie ad esito infausto, l’area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente, ma include la perdita di una serie di opzioni, con le quali affrontare la prospettiva della fine ormai prossima, ovvero “non solo l’eventuale scelta di procedere all’attivazione di una strategia terapeutica, o la determinazione per la possibile ricerca di alternative d’indole meramente palliativa, ma anche la stessa decisione di vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico.

L’autodeterminazione del soggetto chiamato al confronto con la realtà della sua fine non è priva di riconoscimento e protezione sul piano normativo, e ciò qualunque siano le modalità della sua esplicazione: non solo il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non più reversibili, ovvero, all’opposto, la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche la mera accettazione della propria condizione, perché “anche la sofferenza e il dolore, là dove coscientemente e consapevolmente non curati o alleviati, acquistano un senso ben differente, sul piano della qualità della vita, se accettati come fatto determinato da una propria personale opzione di valore nella prospettiva di una fine che si annuncia (più o meno) imminente, piuttosto che vissuti, passivamente, come segni misteriosi di un’inspiegabile, insondabile e angosciante, ineluttabilità delle cose” (Cass. Sez. 3, ord. n. 7260 del 2018, cit.).

Avv. Emanuela Foligno

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